Una luce sulle malattie legate al sesso
Nel corso dell’evoluzione, il sesso è comparso per la necessità di impedire la fusione di gameti geneticamente identici. Il rimescolamento dei geni, che si ha unendo due gameti, è efficace solo se questi non provengono dallo stesso individuo, se cioè sono portatori di informazioni differenti. Tutto ciò per avere la possibilità di creare un individuo con caratteristiche “vincenti” dal punto di vista evolutivo, che possa, quindi, esprimere aspetti e caratteri utili alla prosecuzione e all’adattabilità della specie.
Con la comparsa di gameti morfologicamente diversi, è iniziata la riproduzione cosiddetta “anisogama”, alla quale segue la comparsa dei sessi maschile e femminile. In biologia, infatti, un individuo di sesso maschile o femminile è definito in base alla capacità di produrre gameti maschili o femminili rispettivamente.
Il sesso è nato, quindi, come opportunità di adattamento a un ambiente che cambia in fretta, ma oggi si è tramutato in un preoccupante limite per l’evoluzione stessa della specie.
Ad ogni modo, molte malattie si manifestano con incidenza e sintomi diversi tra persone di sesso maschile e femminile. Tra i pazienti affetti da malattie autoimmuni (malattie causate dal sistema immunitario che attacca le nostre stesse cellule o tessuti, come nel caso dell’artrite reumatoide o della sclerosi multipla) o da osteoporosi (perdita di densità ossea che causa fragilità e fratture, causata anche da una mancanza di attività fisica), le donne rappresentano l’80 per cento: questo significa che, ogni 10 pazienti, 8 sono di sesso femminile. Ancora: le donne sono maggiormente soggette a sviluppare la malattia di Alzheimer e, nonostante si ammalino meno frequentemente della malattia di Parkinson rispetto agli uomini, in esse il decorso è peggiore e la mortalità più elevata.
A lungo la differenza biologica e fisiologica di uomini e donne è stata ignorata e questo ha causato un ritardo non solo nella comprensione dei fattori che determinano la salute e la malattia nel sesso femminile, ma anche nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura delle patologie delle donne.
Ad esempio, le patologie cardiocircolatorie nelle donne sono state poco studiate, a causa della falsa credenza secondo cui potessero colpire in maniera più grave solo gli uomini. In effetti, se osserviamo solo la popolazione giovane, gli uomini hanno un rischio cardiovascolare maggiore rispetto alle donne della stessa età. Tuttavia, ciò che è stato da sempre trascurato è il fatto che, oltre ai classici fattori di rischio comuni ai due sessi, tra cui ipertensione, obesità e ipercolesterolemia, sulle donne agiscono ulteriori fattori specifici, quali gravidanze e menopausa. Inoltre, le donne sono più propense a sviluppare depressione, a causa di fluttuazioni ormonali, fattori genetici, livelli inferiori di serotonina e influenze sociali, legate alle condizioni socioeconomiche e culturali, che, ancora oggi, in tutto il mondo, penalizzano il sesso femminile.
Anche i sintomi di attacco cardiaco sono differenti tra uomo e donna, rispettivamente senso di oppressione, dolore al braccio sinistro, sudorazione fredda in uno, e sintomi più subdoli, quali affanno, dolore alla schiena e stanchezza prolungata nell’altra.
E ancora, la donna ha una maggiore probabilità di sviluppare cancerogenesi polmonare, oltre che malattie sessualmente trasmissibili.
Nonostante sia ben nota la differenza tra uomini e donne in termini di composizione corporea (la massa grassa è superiore nel corpo femminile), genetica, metabolismo, stato ormonale e sistema immunitario, le donne vengono curate con protocolli e farmaci creati per gli uomini.
Questo causa una maggiore tossicità, effetti collaterali severi, o una ridotta efficacia del trattamento. Per esempio, i farmaci beta- bloccanti (usati per le patologie cardiovascolari) e gli antidepressivi raggiungono concentrazioni plasmatiche più alte nelle donne che negli uomini, proprio a causa di un metabolismo differente, che influenza, quindi, la loro eliminazione.
Credo che, considerando tutto ciò, il punto di partenza per iniziare ad incentivare la farmacologia di genere sia includere innanzitutto la donna nelle sperimentazioni cliniche. Con questo non voglio ridurre il genere al binario, femminilizzare chi non lo desidera o escludere altri generi, ma è un punto di partenza per una rivoluzione nella medicina.
Purtroppo, non possiamo negare che la visione della società attuale sia ancora troppo binaria; partendo proprio da questo limite si può attuare una trasformazione vera e propria, che includa dapprima il genere già accettato socialmente, ma più marginalizzato, per poi passare agli infiniti generi che esistono e che esisteranno.
Troppo utopistico pensare che la scienza sia già pronta ad accogliere le grandi varietà e sfaccettature umane, considerando che, da sempre ed ancora oggi, i farmaci sono sperimentati su uomini caucasici di 70 kg.
Allo stesso modo del linguaggio, la medicina è uno strumento per vivere meglio in comunità e come tale deve espandersi, trasformarsi e reinventarsi ad ogni riga. La scienza non si impoverisce con la trasformazione, si impoverisce con la stagnazione, altrimenti non si parlerebbe di progresso scientifico.
Pertanto, il femminile nella farmacologia è un omaggio e una rappresentanza per tutte quelle persone che, al di là del proprio orientamento sessuale, la propria identità ed espressione di genere, hanno il diritto di essere incluse negli studi scientifici.
Occorre ribaltare la farmacologia con un femminile ribelle.
Per le attiviste e le dissidenti, per chi ha sempre visto il sesso biologico come una gabbia e gli stereotipi ad esso associati come un’oppressione, per chi ha sofferto e soffre ancora a causa di aspettative sociali, per chi non si è mai riconosciuta nei due unici e semplici modelli binari, per chi ha scelto di non sceglierne uno tra i due ma ha deciso di crearselo da sé, per tutte le diverse e meravigliose personalità, per tutte noi.