SUCCESSION – LA “FILOSOFIA DEL KILLER”

SPOILER DELL’ULTIMA PUNTATA DELLA QUARTA STAGIONE DI SUCCESSION!

Non mi ha stupito: tutto è andato come doveva.

La legge del più forte vale anche per chi segue, si mimetizza, non si arrende ma cambia bandiera, guarda in silenzio e decide, non rivela a nessuno ma solo a se stesso (forse).

Succession è stata la storia di una lunga battaglia (durata quattro stagioni) per stabilire la successione di un regno. Quest’ultimo può essere ceduto a solo uno dei quattro figli di Logan Roy: Connor, Kendall, Roman e Shiv. Connor (interpretato da Alan Ruck), nato da un matrimonio precedente, non entra mai in gioco; Logan lo vede come un vero e proprio figlio anziché come rivale quindi forse decreta subito una sua vittoria. Invece, fin dalla prima puntata puntiamo tutto su Kendall (interpretato da uno sconvolgente Jeremy Strong), perché sembra il più forte, l’unico ad avere esperienza e l’unico ad essere un killer. Infatti, in un lavoro come questo, per essere un re, devi mangiare e masticare, sputare ed essere pronto a sacrificare chi ami di più. Quando capiamo la “filosofia del killer” non riusciamo più a dare fiducia a Roman (impersonato da Kieran Culkin), troppo sensibile, troppo affezionato al padre, e quindi notiamo Shiv (Sarah Snook), la più furba tra i furbi. Ma lo è davvero? Si è creata un suo nome dissociandosi dall’azienda della famiglia, si è costruita intorno alla politica diventando una spin doctor ma quando la Corona chiama, lei non esita un momento, lascia tutto ed entra in quella macchina nera affianco a Re Logan. Anche lei vuole la corona e può ottenerla perché è la più forte, forse perché ha un matrimonio solido, ha un sostegno. Suo marito Tom (Matthew Macfadyen) è l’alleato che sceglie per entrare in guerra: interno all’azienda di famiglia si fa breccia nel “cuore” del patriarca per spianare la strada a sua moglie. Ma come ho affermato prima, Succession segue la “filosofia del killer” e anche Tom viene abbagliato dall’oro perciò comincia ad uccidere, silenziosamente, osservando e capisce istantaneamente chi è l’uomo giusto: Logan, è sempre stato lui e lo sarà per sempre anche dopo la sua morte.

Logan Roy (interpretato da Brian Cox), magnate dei media, Re dell’azienda di famiglia che si occupa di comunicazione e intrattenimento, di giornali frivoli e di riviste scandalistiche e addirittura di cinema e parchi a tema, ma soprattutto di famose crociere. Senza amore e senza famiglia, i suoi figli sono pedine come i suoi “amici” e i parenti: non esiste l’amore nel regno dei Roy, una parabola che si trasmette di padre in figlio e di cui anche i nostri tre protagonisti si fanno carico alla fine, all’ultimo minuto della loro storia. Anche se cercano, per un momento, di ritornare loro stessi, di essere una famiglia o quanto meno di volersi bene e di dimostrarselo. Ma quei giorni durano poco, attimi effimeri che sono destinati a sparire. E il destino non giocherà mai dalla loro parte. Proprio come un dramma shakespeariano, c’è sempre una morale mai piacevole che verrà presentata a chiare lettere: “se non sei un killer, verrai ucciso” e così moriranno tutti. Lo percepiamo ma non vogliamo crederci, ci aggrappiamo al pensiero che qualcosa accadrà sistemando tutto. Ma il mondo del lavoro è selvaggio; nella giungla non c’è pietà.

Alla fine, salirà al trono un camaleonte che potremmo indentificare nella figura di un killer. Sacrifica la sua famiglia e le amicizie perché l’oro luccica e lui vuole esserne ricoperto, perché se l’è meritato seguendo gli uomini giusti, perché si è sottomesso e ha fatto tutte le mosse giuste. No, non saranno i tre principi a regnare, sarà Lukas Mattson (Alexander Skarsgård), un tech bro miliardario, che rimpiazzerà i “dinosauri” e rinnoverà tutto, o almeno così promette. Il nuovo re però ha bisogno di un CEO americano per salvare le apparenze e per essere accettato. In un primo momento la scelta più ovvia, colei che lo ha aiutato a siglare l’accordo, è proprio la donna di casa, anche se all’insaputa di lei continua a cercare un altro corpo, un uomo, un volto familiare che faccia tutto il lavoro sporco e quindi perché non scegliere «il tizio che le ha ficcato dentro il marmocchio, invece di quella che lo sforna?» Perché parliamo di lavoro, di un’azienda in cui devi uccidere e non crescere bambini, Shiv non è vista come donna ma ormai come madre: è diventata (forse lo è sempre stata) vittima di un progetto sessista che non smette di ripetersi. Così come prima Logan non era convinto nella scelta della figlia, così dopo l’usurpatore scandinavo è convinto che di sicuro Shiv, una donna, è adatta a una «bottarella» ma in fin dei conti «non riesce a gestire quel casino».

Tutto è deciso: chi sale sulla macchina nera una seconda volta ma in veste di madre, chi beve con un sorriso alla Monna Lisa e chi infine guarda il mare. Kendall, Roman e Shiv non sono “gente seria” come profetizza il loro “vecchio” prima di morire: sono bambini che giocano con tutto e tutti; ma lo scettro e la corona pesano e richiedono un certo equilibrio altrimenti tutto ti schiaccerà e non sarai degno a regnare. Rivelatrice la frase capricciosa di un ormai sconvolto Kendall «Sono il figlio maggiore! Sono il figlio maggiore!» che chiude il racconto di Succession in maniera circolare: bambini viziati che gareggiano per l’affetto di un padre mai esistito. Esiste solo il potere tangibile e reale, mentre l’amore è un comfort che non ci possiamo permettere.

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