Storia di un condannato a vita

“Ciao mamma, ti scrivo sperando nella possibilità di ricevere una tua risposta anche se lo sai quanto difficile sia per me scrivere questa lettera, non sono mai stato un bravo scrittore. Sai l’altro giorno pensavo a quando da piccolo mi cantavi sempre ‘don Raffaè’ di De Andrè, era una canzone bellissima, forse troppo bella per essere ben compresa da un ragazzo cosi giovane. Che bei tempi che erano, mai allora avrei pensato che un giorno sarei stato io il protagonista di quella canzone. Sai mamma, da quando sono rinchiuso in queste piccole ma spesse pareti grigie ho riflettuto molto. Una cosa su cui ho riflettuto molto è l’importanza delle piccole cose, anche una banale doccia calda qui è un lusso, ricordo quando facevo delle lunghe docce calde, era un momento per riflettere nei periodi tristi o per cantare in quelli felici. Qui dentro è ben diverso, non ho la possibilità di avere un minuto da solo, acqua gelida e grida è tutto ciò che percepisco. Quasi mi viene da ridere pensando alla possibilità di avere dei momenti da dedicare a me stesso, qui non funziona cosi. Passiamo le giornate in una piccola cella dove a malapena entrerebbero 2 persone mentre noi siamo in cinque. Nell’angolo di questo piccolo buco abbiamo un lavandino che si prolunga fino ad un piano dove è appoggiato un fornello a gas. C’è un piccolo muro che separa questa nostra cucina dalla tazza del water, appoggiata sulla quale pende un rotolo di carta igienica. Come è possibile pensare che qui dentro potremmo essere risocializzati quando non abbiamo spazio neanche per i nostri pensieri?

Non sono più un bambino, ormai ho quasi 25 anni, sono adulto ne sono consapevole , ma allo stesso tempo quei bisogni che si hanno da bambini non vanno mai via e anzi talvolta emergono con ancora più forza. Ricordi quando da piccolo tornando da scuola dopo una brutta giornata tu ascoltavi tutti i miei sfoghi? Come era bello sentirsi ascoltato, preso in considerazione. Qui tutto ciò non esiste. A volte sento il bisogno di sfogarmi, di parlare delle mie paure, dei miei bisogni ma qui non è possibile. Mi sento solo, mi sento abbandonato. Fortuna che ci sono i miei colleghi di cella con cui posso sfogarmi, sembrano essere gli unici ad ascoltarmi realmente qui dentro, gli unici che sembra ci tengano alla mia salute. Qui dentro funziona cosi, ci aiutiamo tra di noi perché non abbiamo nessun altro. A volte ci preoccupiamo più del nostro compagno di cella che di noi stessi. Penso a quel ragazzo con cui spesso parlavo, si preoccupava sempre per me, ogni giorno mi chiedeva come stessi, non mi augurava di non avere giorni tristi, qui sono la normalità, mi augurava di restare forte durante questi. Sai, l’altro giorno il sole splendeva e si irradiava tra le pareti ammuffite della nostra piccola cella, ero di buon umore quella mattina, e qui dentro è una rarità, provai a chiamarlo a voce alta, volevo sapere come stesse ma stranamente non rispondeva. Il giorno prima mi disse che quel giorno avrebbe avuto il colloquio con sua figlia, mi parlava continuamente di lei, era il suo orgoglio, diceva sempre che era il suo unico raggio di sole in una vita buia, l’unica cosa che gli dava la forza di andare avanti sebbene i colloqui fossero sempre sotto gli occhi di guardie con lo sguardo giudicante. All’improvviso sentii le grida. ‘Guardie guardie correte’. Mi sono pietrificato, quelle grida avevano un significato preciso, lui non c’era più. Mi sembrava tutto cosi assurdo, irreale. Perché avrebbe dovuto fare un gesto simile? Lui che mi diceva continuamente di restare forte, che i tempi bui sarebbero passati, perché lo ha fatto? Ci ho riflettuto molto mamma, qui dentro siamo fragili, basta una lettera non ricevuta o una telefonata senza risposta per crollare, per mollare tutto. Gli hanno trovato una lettera una lettera in mano, una lettera come quella che io sto scrivendo a te in questo momento, ma con un contenuto ben diverso. Era stato appena avvisato dal tribunale che sarebbe stato trasferito. Troppe persone dentro questo carcere, questa la motivazione, c’era la necessità di trasferire qualcuno, come fossimo pedine di un puzzle. Chissà cosa penserà adesso sua figlia, chissà quanto inutile dolore starà provando. Una lettera e una corda, basta cosi per far terminare la vita di un uomo.

Ma alla fine il carcere è questo, dolore, punizione, sofferenza. Ormai noi abbiamo un marchio, siamo e saremo sempre il rifiuto della società, il brutto a cui guardare per sentirsi migliori e questo non potrà mai cambiare. La vita qui dentro pesa, è una continua sofferenza, ma nulla è paragonabile a quella che sarà la vita una volta usciti da qui. I pregiudizi, l’assenza di prospettiva, le porte chiuse in faccia, i traumi che porteremo dentro per sempre, perché tutti pensano che il carcere sia una cosa temporanea? Quello che stiamo vivendo qui lo porteremo dentro per sempre, come posso dimenticare di quelle mattine in cui la mia sveglia erano le grida di un detenuto che si era tagliato le vene solo per attirare l’attenzione di qualcuno? Perché bisogna arrivare a questo per avere qualcuno che ci ascolti? Perché ci si dimentica che siamo esseri umani anche noi?

Con affetto, un condannato a vita.

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