Sono stati concitati gli ultimi giorni a Roma. Tra le stradine del centro si è respirata un’aria di febbrile trepidazione. I vetturini sfrecciavano per accompagnare questo o quel capo politico alla riunione successiva. I giornalisti a gran falcate intercettavano i parlamentari per rubare una frase, un commento, una parola da riportare alle agenzie di stampa. Si è consumato, in poco meno di una settimana, uno degli appuntamenti politici più importanti per il nostro Paese.
L’elezione del Presidente della Repubblica è uno degli eventi a cui le forze politiche partecipano con maggior pathos, consapevoli che la vittoria o meno di un candidato potrà essere letta come attestazione di forza e coesione da parte dei propri avversari e dalla stampa. Col passare dei giorni abbiamo assistito a candidature improponibili, a rose di nomi lanciate nel mangiacarte della politica; a chiamate, colloqui, incontri segreti per congegnare il rimpasto di senatori vetusti a cui regalare gli ultimi cinque minuti di gloria politica prima della tanto cara pensione.
Tra tutte le rose artificiali, proposte dalle coalizioni, solo una pare aver retto.
Sergio Mattarella è stato rieletto Presidente della Repubblica, seppur avesse affermato a più riprese che mai avrebbe considerato un secondo mandato. A maggior ragione che il pover’uomo aveva già comperato casa nel cuore di Roma. Il suo sogno di un tanto meritato riposo, lontano dai riflettori istituzionali, dovrà aspettare ancora un po’.
Lui, come la ginestra del Leopardi, è riuscito a resistere alle intemperie di queste morigerate elezioni, sobbarcandosi altri sette anni di mandato controvoglia.
Questo risultato, atteso dagli analisti che hanno inondato i quotidiani italiani con fiumi di parole, lascia spazio a un’inchiesta più profonda, a un eco sordo che riecheggia nelle teste degli italiani. Perché non si è riusciti a trovare un compromesso?
Gli scenari da analizzare sono molteplici e variegati. Dalla mancanza di consistenza dei leader politici alla frammentazione delle forze stesse, i fattori che hanno avuto un’incidenza preponderante nel determinare la rielezione del Capo dello Stato sono già al vaglio dei commentatori da salotto televisivo che – sento di affermare con gran sicurezza – si sperticheranno nei prossimi giorni a commentare dalle comode poltrone degli studi, prima che l’attenzione volga alle tanto attese cinque serate di Sanremo.
La chiave di lettura di questo disastro politico si può leggere in un’unica affermazione: questo Parlamento non è più rappresentativo.
Lo abbiamo urlato a gran voce nel corso dei mesi, ci siamo sgolati affinché ci ascoltassero. I sussulti sono nati fin dalla bocciatura del DdL Zan, il Parlamento dell’attuale legislatura non riflette oramai la situazione sociale del nostro Paese. Basti prendere in analisi la sua composizione. Su 1009 grandi elettori, solo il 34% sono donne e solo il 16% hanno un’età inferiore ai quarant’anni. Insomma, un Parlamento avvolto nella naftalina che se la canta e se la suona in piena autonomia.
Ciò che più nel profondo mi sconvolge, però, non è il fatto che il Parlamento non ci rappresenti. Sebbene quest’aspetto sia grave, credo ci sia un altro punto fondamentale che dovrebbe destare uno scombussolamento assai più preoccupante e che si può tradurre nella totale indifferenza della classe politica.
Nell’ultima settimana abbiamo assistito ai tentativi disperati dei parlamentari di salvaguardare la poltrona.
Consapevoli che la nuova legge avrebbe decimato Camera e Senato, hanno cercato in tutti i modi di attaccarsi con un’inaudita morbosità al loro posto, senza badare ai bisogni del Paese. E in tutti i modi ci hanno provato le testate estere a porre luce sulla necessità di stabilità e continuità – ma avevamo davvero bisogno che qualcuno lo ribadisse? -, soprattutto al netto dei fondi del PNRR che stanno per entrare nelle casse dello Stato. Ma niente, loro non ce l’hanno fatta.
Un Parlamento retrogrado, a maggioranza maschile ha ripiegato sul povero Mattarella nella speranza che continui a tenere saldo un sistema che si sgretola come sabbia sotto ai nostri occhi.
Si dice che i politici odino i tecnici per poi finire a doversi affidare sempre a loro. Lo diceva qualche giorno addietro Aldo Cazzullo sul Corriere; questi erano i giorni di riscatto per i peones – così sono chiamati i parlamentari dalla stampa, ndr – che finalmente avrebbero potuto dare prova di sé, della loro compattezza, del loro rigore morale. Ma forse siamo stati troppo sciocchi noi cittadini a pensare che un gruppo di bamboccioni impostati, irretiti dalle trame oscure dei partiti politici, potessero effettivamente concludere qualcosa. E così hanno dovuto supplicare di nuovo un tecnico, avverando uno dei loro più grandi incubi.
Ricordiamoci tutto questo quando l’anno prossimo andremo al voto.
Ricordiamoci di tutte le promesse fatte, del teatrino indecente a cui abbiamo assistito; dei giudici, dei presidenti, delle cariche dello stato gettate nel pastone di questi giorni; dei miseri fondi stanziati a nostro favore – solo l’8% dell’intero pacchetto di aiuti è destinato agli under 35, ndr.
Se l’elezione del PdR ci ha insegnato qualcosa, è che dobbiamo favorire una riqualificazione della politica italiana. Che sia più giovanile, più inclusiva, meno di parte e meno legata alle venali ambizioni.
E chissà se fra sette anni non dovremo più ripiegare sulla ginestra di turno. Magari, grazie a noi, quelle rose fioriranno.