Poligamia randagia

L’amore è quando poi ti viene la malinconia.

Erano i primi di settembre quando mio cugino spariva all’orizzonte tra i finestrini dell’auto per andarsene al Nord e tornare chissà quando. Ero un bambino. Mi sedevo nella veranda di nonna e guardavo il giardino: tutto mi pareva più triste. Dentro, mi sentivo debole.
“Nonna, mi gira lo stomaco. E mi sento spossato“.
Ma lei lo diceva sempre: “Non è niente, non stai male; è solo la malinconia, poi ti passa”.
Eh, poi ti passa. Aspettavo, lo stomaco tagliuzzato.
“Intanto, questo è un saccheggio, nonna”.

Da quando ho iniziato l’università vivo due vite e la malinconia viene a farmi visita più spesso. Era il 23 dicembre ed io ero ancora a Torino, chino sulla valigia, immobile. Mi girava lo stomaco e mi sentivo spossato. Chi voleva andarsene da Torino? Per Pavese era il più bello di tutti i paesi. Ma io, tutti i paesi non li ho ancora visti. E il superlativo assoluto mi ha sempre messo in difficoltà. “Qual è il tuo film preferito?” “Il colore?” “L’amore più profondo?” E io non so mai cosa rispondere, perché uno mi pare sempre troppo poco.
Non lo sapevo se Torino era il più bello di tutti i paesi. Ma sapevo che non volevo andarmene. Non per una questione di bellezza, ma di equilibrio. Perché a Torino stavo bene e altrove chissà. Magari meglio, magari uguale, magari… Boh, il rischio di scoprirlo era una fatica e veniva da chiedersi: perché viverla?

Ma la nonna lo diceva: quella è solo la malinconia, poi ti passa. E infatti, il 25 dicembre ero a Leverano da neppure 24 ore e già la risentivo casa mia. Il mio posto nel mondo. Chissà altrove: magari sarebbe stato uguale, magari meglio. Ma intanto ero lì e lì stavo bene e in nessun altro posto volevo stare. A Torino neanche ci pensavo più.
La famiglia, i cugini, i nonni. I luoghi, il mare, le stradine. I locali, gli amici, le tradizioni. Avevo ritrovato tutto. Ero di nuovo a casa mia. Ero in equilibrio.

Poi, però, tutto era andato avanti, nel frattempo. Nuovi grovigli nella quotidianità familiare, nuove rughe sui volti dei nonni, qualcuna timida su quelli dei miei. Nuove scelte del comune sulla viabilità, nuovi volti tra i locali, storie di gente che m’ero perso. È questa poi una casa?
E subito la paura di dover presto andar via. Qualche ora con ognuno di loro, volti e luoghi, bastava a pensare di starli vivendo ancora? La giuria del mio cervello si interrogava e il responso era: io, ormai, ero solo in visita. Come a Roma o sulle Dolomiti, ma stavolta dove un tempo era casa mia.

Dover ripartire per Torino: nel treno di nuovo lo stomaco irrequieto e la spossatezza. Ero come il Fulminacci di quella Ladispoli mai registrata in studio, a chiedermi: ma come fanno tutti a farsela passare questa malinconia, la voglia di restare?
Chi ce l’ha la voglia di tornare di là? Qui sto bene. È un libro che ho amato e di cui mi dimentico, ma basta risfogliarne casualmente le pagine e già mi ricordo. E le 9 ore e mezza di Frecciarossa io le passerò tutte guardando dal finestrino la terra mia che è scomparsa all’orizzonte.

Poi, scenderò a Porta Nuova e già sentirò il primo freddo nelle ossa. Presto sarò in piazza Carlo Felice a fare a spintoni per un posto sul 64. Uno sguardo a sinistra: le luci della collina sono ancora là, come piccole lucciole sospese. Poi la fermata, il quartiere, le solite scritte sui muri. Casa. Ciao Davide, che bello rivederti. E i peruviani che ballano nel nostro cortile stanno alzando la musica. All’indomani i soliti posti: le aule, la mensa, il campo da calcio. I soliti volti amici. Di nuovo equilibrio. Di nuovo bene.

Ma si può aver già dimenticato dove si è stati bene? Si può già aver trovato di meglio? Me lo chiedo, ma sta volta alla nonna non dico nulla.

Forse è che l’amore eterno, l’amore esclusivo sono solo dei sogni che c’hanno installato da bambini.
Mia sorella dice che le mie storie finiscono sempre troppo presto. E forse sarà che io non so costruire. Forse, come dice Piero, sarà solo la curiosità dell’essere poco più che ventenni. Forse, penso da un po’, è che l’amore non lo discrimina nè l’eternità nè l’esclusività. L’amore finisce, quasi sempre. E capita che si accavalli. Semmai, l’unica discriminante che mi pare d’aver trovato tra l’aver amato o meno è una sensazione di stomaco in subbuglio e spossatezza.

Non è vero che Leverano io l’ho già dimenticata. Non è vero che mi dimentico di Torino quando torno giù. È che le amo entrambe, nella mia condizione di poligamia randagia, senza una casa dove poterlo fermare per sempre ‘sto sentimento. E amarle è struggente. Perché l’amore è struggente. Incomprimissibile. Incondivisibile. L’amore è un ramingo. Semmai migratorio. E allora mi tocca prenderlo finché posso, ovunque lo trovi. Forte; ma non troppo, non per l’eternità, non a saturarsene, come da sempre mi pare si tengano i protagonisti de L’abbraccio di Schiele.
L’amore è quando poi ti viene la malinconia. Ed è l’unica discriminante che ad oggi per me ne da un senso.

Non so se è per questo che Fulminacci non la registra mai quel tenero squarcio che è Ladispoli.
Ma io ancora ci casco, ogni volta. È la mia forma di masochismo: senza, non mi sentirei vivo.

Poi passa, dice la nonna. E passa. Ma che dolce saccheggio, sempre, che è.

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