NON PERDIAMOCI DI VISTA

L’importanza di “toccare con mano”

Ci ha fermati per chiedere aiuto. Senza dire altro, ha lasciato che lo seguissimo all’interno di quello che restava della sua bottega. Il muro centrale era stato completamente distrutto, acqua e fango rendevano impossibile distinguere il pavimento. L’ingresso era pieno di oggetti di ogni tipo: c’erano vasi e piatti di ceramica a terra e su una libreria sbilenca, in un angolo delle tende da campeggio, un vecchio forno, dei libri e dei biglietti da visita diventati quasi un unico blocco.
Ha proseguito dritto e ci ha condotti in una seconda stanza, quasi del tutto vuota ad eccezione di una scaffalatura. Qui, sotto spessi strati di fango, decine e decine di oggetti di ceramica che aveva realizzato lui, in più di vent’anni di lavoro. Gli ho chiesto come si chiamasse e mi è parso quasi stupito della domanda. Si percepiva che non voleva tenerci occupati troppo a lungo: ci aveva chiesto in modo asciutto una mano per liberare la scaffalatura e ogni piccola cosa in più pareva sorprenderlo; gli abbiamo fatto capire che saremmo rimasti insieme per un po’.
Bisognava togliere il fango e l’acqua da dentro la casa (credo che abitasse proprio sopra alla bottega) e, a questo scopo, volevamo smontare la scansia, che, una volta svuotata, era d’intralcio nel lavoro di pulizia. Ci ha chiesto di non farlo, perché era “l’unica cosa che aveva tenuto in piedi tutto”. In effetti, gli altri due muri erano stati portati via dall’alluvione e solo quello con la scaffalatura e le ceramiche non era crollato. Nonostante sia l’ipotesi che la richiesta ci siano apparse inizialmente un po’ ingenue, erano certamente comprensibili e le abbiamo rispettate di buon grado.
I primi istanti ricordo che mi stava prendendo come una smania di fare quanto più possibile, volevo aiutare il signor Carlo ma allo stesso tempo fare presto per poter andare da tutti gli altri. Poi ho pensato che oltre ad essere impossibile, aveva forse più senso dedicarsi ad un’unica impresa, ad un’unica storia. Mi stupisce notare come la mia percezione di quel lavoro sia cambiata nel corso della giornata: inizialmente mi era sembrata un’impresa troppo impegnativa sia per i mezzi che avevamo a disposizione che per il risultato che avremmo potuto realisticamente raggiungere, ma, col tempo, ha cominciato a rappresentare un intero mondo. L’attenzione e le energie di tutti noi erano interamente canalizzate in quella singola attività, i pensieri rivolti esclusivamente a ciò che avevamo intorno. E non importa quanto poco senso sembrasse avere spostare il fango da una parte all’altra (si trattava a tutti gli effetti di uno spostamento: i tombini della città sono intasati a causa della melma, li abbiamo scoperchiati e svuotati a mano, ma i problemi sono più grossi e servono interventi di entità molto maggiore), l’obiettivo comunque era svuotare la casa.
Per un po’ sembrava di essere caduti in una trappola del fango: si creava spesso un circolo infinito per cui dovevamo togliere acqua e fango dall’interno, ma anche usare dell’acqua per lavarlo via e così ogni azione sembrava inutile, essendo il suo effetto immediatamente annullato dall’azione successiva. Abbiamo riempito e svuotato un numero enorme di carriole, ma il fango nel cortile (che era ad un livello più basso di quello della strada e quindi non consentiva il deflusso) sembrava restare sempre lì.
Intanto, col passare delle ore, il legame con gli altri volontari si è rafforzato: più volte ci siamo ringraziati a vicenda per l’aiuto e più volte abbiamo gioito dei piccoli passi in avanti come se quella fosse casa di tutti noi. L’umore del signor Carlo è andato lentamente migliorando. Al nostro arrivo, portava fuori le sue ceramiche una ad una e probabilmente era ciò che aveva fatto per tutti i giorni precedenti; dopo un po’ di tempo, invece, ha riconquistato fiducia e speranza e così ha cominciato a spostare il fango con più forza e a regalarci qualche sorriso in più, mentre ci offriva periodicamente acqua e cornetti all’albicocca. Una volta fatto il grosso del lavoro all’interno, abbiamo cominciato a lavare le ceramiche. Sotto un fitto strato di fango si nascondevano colori accesi del tutto inaspettati, immagini dalla Bibbia e altre dai miti greci e, dietro ognuno dei manufatti, la firma di Carlo. Un momento mi sembrava di essere un’archeologa che scopre un reperto e il momento dopo una sopravvissuta a un’apocalisse. Mi sono ritrovata molto bambina, in queste associazioni di idee: era uno dei miei giochi d’infanzia quello di fingermi una paleontologa e rinvenire fossili nascosti nel mio asciutto salotto di casa e Carlo mi ha fatto pensare, non appena l’ho conosciuto, al vasaio di Hercules che nelle prime scene del film tenta di tenere in piedi la sua bottega che sta per crollare a causa della forza incontrollata dell’eroe.
In tutta la città si respirava un’atmosfera speciale: sarà perché si tratta di una catastrofe naturale (anche se a questo proposito sarebbero certamente da discutere le responsabilità che ha l’uomo nell’incredibile aumento degli eventi climatici estremi), ma le persone in Emilia-Romagna tengono davvero botta. Non c’è rabbia né sterile rassegnazione. La gente svuota le proprie case, i propri posti di lavoro, ma si vede tutta la volontà di ricostruire, di andare avanti. Poco prima che ci mettessimo sulla via del ritorno, una famiglia ci ha chiesto di aiutarli a portare fuori un frigorifero. Fuori dal marciapiede di casa due librerie, un letto, una casetta delle Barbie, una macchina giocattolo.
Sicuramente sarà necessario ancora moltissimo lavoro, servono soprattutto interventi più specializzati e fondi per risarcire gli incredibili danni. Ma penso che vedere un po’ più da vicino questi fatti, farsi raccontare più storie, parlare di più con le persone, possano essere buoni strumenti per ripensare da dove partire. L’empatia non è qualcosa che è facile provare dentro le nostre case, serve “toccare con mano” e serve in questo senso uno sforzo educativo. Penso che molti dei problemi dei nostri giorni (crisi climatica, guerre, crisi umanitarie, povertà, migrazioni) finiscano per non interessarci abbastanza perché li percepiamo come troppo lontani. Anche io, che razionalmente ne vedo l’enorme portata, ho un margine di attenzione piuttosto ristretto, per cui quello che non rientra chiaramente nella mia sfera non solo non rappresenta una priorità nelle mie giornate, ma finisco addirittura per non pensarci affatto. L’alluvione è accaduta a meno di quaranta minuti da casa mia e, nonostante questo, io ho pensato di andare in quelle zone solo una settimana dopo i fatti, una notte che a letto nel buio della mia comoda stanza da fuorisede ho visto l’ennesima foto sui social. Le cose ci interessano troppo tardi e per troppo poco tempo così, per prenderle sul serio, serve che il Covid arrivi dalla Cina all’Italia, la guerra in Europa e la crisi climatica in Emilia-Romagna.

La bottega di Carlo ha ancora i muri spaccati e i danni non visibili alla struttura saranno anche più gravi di quelli visibili, eppure, con la stessa ingenuità con cui lui ci aveva chiesto di non smontare la scaffalatura, la felicità ha colto tutti a fine giornata. All’interno della bottega, il fango non c’è più e sulla scaffalatura Carlo ha potuto riesporre le sue ceramiche pulite. Ci ha abbracciati e ci ha detto: “tornate, non perdiamoci di vista”.

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