Nicolás Gómez Dávila e l’arte dell’aforisma

Ci sono a volte scrittori solitari che spuntano imprevedibili, senza essere annunciati da niente e da nessuno. Che sembrano provenire dal nulla. Eccentrici, irregolari, scomodi, essi risultano inclassificabili, e per questo inconfondibili e inimitabili. Il colombiano Nicolas Gomez Davila – per come scrive e per ciò che scrive – appartiene di diritto al loro novero. Nato a Bogota il 18 maggio 1913, all’età di sei anni si trasferì con la famiglia a Parigi – com’era costume tra le classi benestanti colombiane – per beneficiare di una formazione europea. Frequentò un collegio benedettino, poi una malattia polmonare lo costrinse in casa per due anni. Continuò gli studi con precettori privati, imparò le lingue antiche e moderne, acquistò familiarità con i classici. Ritornato in patria all’età di ventitré anni, fece una scelta radicale. Si ritirò per dedicarsi interamente alla lettura e alla scrittura, ovvero a una specialissima e per lui insostituibile cura: la biblioterapia. Al centro della sua bella casa in stile Tudor, nella zona settentrionale di Bogota, c’era la biblioteca. Con l’aiuto di un libraio viennese emigrato in Colombia, vi raccolse un immenso tesoro: la letteratura e il pensiero della vecchia Europa da Omero a Goethe, dai presocratici a Heidegger. Tutto, rigorosamente, in lingua originale. Se possibile, nell’editio princeps. Qui “don Colacho” – così lo apostrofavano gli amici – si intratteneva fino a notte fonda, leggendo, meditando e annotando a matita, su quaderni verdi, le proprie glosse. Morì il 17 maggio 1994. Ha lasciato un’unica opera, di cui gli altri pochissimi libri che scrisse non sono che la preparazione o l’eco, un’ampia raccolta di aforismi, quasi mille pagine, il cui strano titolo recita: Escolios a un texto implicito. (Una prima parte è tradotta da Adelphi con il titolo In margine a un testo implicito). Sono distillati di lucidità che impressionano per nitore stilistico ed essenzialità. Toccano i grandi problemi di sempre: Dio e il mondo, l’uomo e il suo destino, tempo ed eternità, Eros e Thanatos, arte, religione e politica. Ma lo fanno in uno stile inimitabile, fondendo forma e idee in una concisione che obbedisce a una poetica elementare: quella della scrittura “breve ed ellittica”. Non si tratta unicamente di restituire al pensiero la semplicità che il discorso gli sottrae. La vocazione esclusiva per l’aforisma nasconde una scelta di vita e di pensiero. Chi si limita a scolii e note si è deciso per “l’espressione verbale più discreta e più vicina al silenzio”. Per l’ethos dell’umiltà e della modestia: “L’esposizione didattica, il trattato, il libro si addicono soltanto a chi sia pervenuto a conclusioni che lo soddisfano. Un pensiero vacillante, pieno di contraddizioni, che viaggia senza comodità nel vagone di una dialettica disorientata, tollera appena appena la nota, perché gli serve da punto di appoggio transitorio”. Si spiega così a quale “testo implicito” alludano gli Escolios: “Il diario, la nota, l’appunto aiutano il mediocre perché suggeriscono un prolungamento ideale, un’opera fittizia che non li accompagna.

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