“Sono nata il ventuno a primavera/ ma non sapevo che nascere folle,/ aprire le zolle/ potesse scatenar tempesta.”. In questa data del 1931, a Milano, nasce la donna, poetessa e scrittrice che ha meglio descritto in versi l’amore e la follia, mai sinonimi e sempre compagni nel verseggiare di Alda Merini. È più che necessario delineare i passaggi chiave della sua vita, sarebbe altrimenti impossibile comprenderne la poesia, al contempo genuinamenteautobiografica e semplicemente universale. Cresce tra i libri del padre e la ristrettezza della madre che teme possano deviarla dalle aspirazioni coniugali, a 15 anni riceve i primi apprezzamenti per le sue liriche da parte di autori affermati come Spagnoletti, ma viene osteggiata dal padre che non considera la scrittura un mestiere redditizio. L’anno seguente farà il primo ingresso in un ospedale psichiatrico ove le sarà diagnosticato un disturbo bipolare. “Il giorno io lo guadagno con fatica/ tra le due sponde che non si risolvono,/ insoluta io stessa per la vita/… e nessuno m’aiuta” scrive nella celebre poesia Il Gobbo pubblicata nel ’51, a rimarcare la solitudine e l’incomunicabilità che l’attanagliano e la sfiancano. Negli anni seguenti entrerà in contatto con grandi nomi della poesia come Montale e Quasimodo, pubblicando quattro raccolte di versi. Nel 1964 varca nuovamente le porte di un ospedale psichiatrico che non abbandonerà prima del ’72. Sarà solo nel 1979 che troverà la forza di squarciare lo straziante silenzio in cui si era avvolta come tra asfissianti coperte in un sonno irrequieto che andrà a sfociare nel più lucido dei suoi lavori: “La terra santa”. “Le mura del manicomio/ erano le mura di Gerico/ e una pozza di acqua infettata/ ci ha battezzati tutti.” Stravolta dall’esperienza in manicomio Alda Merini diviene la voce degli emarginati, una melodia che pare familiare non solo agli internati, ma anche alla gente comune. La sua denuncia si espande dall’ambiente psichiatrico fino alla società tutta incapace di assimilare le diversità e ancor più di provare emozioni. La sua poesia asciutta e diretta sembra spiegare ad un bambino i misteri della vita, dall’amore per gli altri, quello per se stessi, alla noia e al senso stesso dell’esistenza “sono nata zingara, non ho posto fisso nel mondo,/ma forse al chiaro di luna/mi fermerò il tuo momento,/quanto basti per darti/un unico bacio d’amore.” (Canto alla Luna 1991). Mi sarebbe impossibile continuare questa cronistoria senza risultare morboso vista la straordinarietà della vita della poetessa e la strabiliante quantità di lavori pubblicati, ma ci basti sapere che le pubblicazioni della poetessa dei navigli sfiorano il centinaio e tra i premi che le sono stati riconosciuti figurano il librex Montale e la candidatura al Nobel per la letteratura. Alda Merini seppe dare un volto ed un corpo ai suoi versi, mai confinati nel metro stilistico d’accademia, “e come la mia rima/che dovrebbe essere una parola/e invece è un pensiero/una canzone.”(da Il liuto), la rima di senso pervade la sua opera e stupisce per la musicalità semantica e logica prima che fonetica, le sue parole non agiscono attraverso il foglio o vibrando l’aria, ma si raccolgono silenti nel cuore del lettore, immerso in una fiumana di emozioni familiari. Concludiamo riportando i versi finali della lirica con cui abbiamo aperto, “Sono nata il ventuno a primavera” in cui la libertà d’esser come si è si rammarica d’esser vituperata e si abbandona al pianto nello scuro della notte del pensiero, ma la poetessa non si ferma alla descrizione della scena, la carica di significato affermando come questa stia cercando aiuto. Questa lirica è la migliore descrizione che Alda abbia mai fatto di se stessa, dirompente e stravagante, ma ingenua e bisognosa d’aiuto, forse più di tutto, incompresa. Così Proserpina lieve/vede piovere sulle erbe,/sui grossi frumenti gentili/e piange sempre la sera./Forse è la sua preghiera.
Inchiodare il pubblico al silenzio: “Le Amarezze“, da Koltès a Adriatico
“La carne è incompatibile con la carità: l’orgasmo trasformerebbe un santo in lupo.” E. M. Cioran, “Sillogismi sull’amarezza”, 1952 Nell’attualità della cultura europea, ormai