Mahsa Amini: una battaglia dolorosa contro l’ultraconservatorismo e la violenza

Mahsa Amini si aggiunge alla lista delle vittime del più becero conservatorismo e dell’estenuante violenza contro le donne che le vede succubi di numerosi provvedimenti del governo iraniano presieduto dal leader supremo Ali Khamenei. Tra questi provvedimenti, uno dei più estremi è stato quello del codice di abbigliamento obbligatorio imposto dalle autorità iraniane a seguito della Rivoluzione islamica del 1979, che impone a tutte le donne di indossare velo e abiti larghi che nascondano il corpo in pubblico. Esiste una “polizia morale” che ha il potere di fermare le donne e valutare se mostrino troppi capelli, se i pantaloni e i soprabiti siano troppo corti o aderenti o se usino troppo trucco, e Mahsa Amini, di 22 anni, è morta dopo tre giorni di coma proprio in seguito ad un arresto della polizia religiosa. Un arresto in seguito al quale, per quanto la polizia affermi che la ragazza sia morta per arresto cardiaco, devono essere state compiute delle torture.

La famiglia di Amini dice infatti che gli agenti l’hanno picchiata nel furgone della polizia dopo il suo arresto, citando testimoni oculari che sostengono questa affermazione. Ciononostante la polizia respinge le accuse, sostenendo che Amini sia morta dopo essere stata portata in ospedale per un attacco di cuore. Il reato contenstato era di non aver indossato correttamente il velo.

Generalmente le punizioni per la violazione delle regole includono multe, carcere o fustigazione. Nel 2021 almeno 24 prigionieri sono morti in circostanze sospette legate a possibili episodi di tortura e altro maltrattamento, compreso il diniego di cure mediche adeguate. Il codice penale ha continuato a prevedere punizioni corporali equivalenti a tortura e altro maltrattamento, tra cui -oltre alla fustigazione- accecamento, amputazione, crocifissione e lapidazione.


Dopo la morte di Mahsa, le proteste contro la polizia morale si sono moltiplicate, dapprima a Saqqez, città natale di Mahsa, poi nel resto del Kurdistan: molte sono le donne che hanno iniziato a intonare canti contro la polizia, a scendere in piazza, a bruciare il loro velo, a tagliarsi i capelli, a prendere d’assalto gli edifici governativi, a dare fuoco alle immagini del leader Khameini. E il numero delle vittime della polizia iraniana non solo è alto, ma è anche fortemente sottostimato, tralasciando i numeri che riguardano feriti e arresti che ammontano a diverse centinaia.


La morte di Amini è ora diventata un simbolo della violenta oppressione che le donne hanno affrontato in Iran per decenni, e il suo nome si è diffuso in tutto il mondo, con i leader mondiali che l’hanno invocata in settimana anche all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani giovedì si è fatto portavoce della condanna unanime da parte di tutti i membri delle Nazioni Unite nei confronti dell’uso della violenza fisica contro le donne in Iran da parte delle autorità statali: “Le autorità iraniane hanno detto che Mahsa Amini sia morta per un infarto e quindi per cause naturali. Tuttavia, alcuni rapporti hanno suggerito che la morte di Amini sia stata il risultato di presunte torture e maltrattamenti. […] Chiediamo alle autorità iraniane di tenere un’indagine indipendente, imparziale e rapida sulla morte della signora Amini, di rendere pubbliche le conclusioni dell’indagine e di ritenere tutti gli autori responsabili”.


Tutto questo è terribile e ricorda le manifestazioni portate avanti dagli americani per ottenere riforme della polizia dopo l’ingiusta morte di George Floyd, e se, in Iran, questo sia l’inizio della nascita di un movimento antigovernativo, l’inizio di un cambiamento politico o una semplice protesta contro l’hijad, ancora è difficile saperlo.

Certo lo sconforto è grande anche per il futuro perché è difficile pensare che qualcosa possa cambiare, però vedere le strade inondate di giovani donne e di giovani uomini che sfidano l’ordine precostituito dà molta speranza e molta forza anche solo perché questo forse contribuirà a fare giustizia per Mahsa Amini e per tutte le vittime. Ma ciò che forse più colpisce e che oltre a una speranza dà probabilmente un esempio, al di là della cronaca e della storia che dovrebbero essere conosciute, al di là dall’ultraconservatorismo dilagante, è che queste ragazze e questi ragazzi stiano scendendo in piazza rischiando non solo di essere colpiti da colpi di proiettile ma anche di essere picchiati, torturati, imprigionati, giustiziati. La battaglia adesso non è solo contro il governo, ma un po’ anche contro la propria storia e le proprie tradizioni che non sempre sono giuste, che non sempre garantiscono libertà, eppure questa battaglia che comporta probabilmente un grande dolore, una lacerazione interna, una scissione con una parte di sé che è ovviamente sofferta, fa sentire ancora una volta, a prescindere da quelli che saranno gli esiti, la voglia di non restare fermi davanti a un’ingiustizia.

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