E PAPA SISTO V E LA GHILIOTTINA
- Ce stanno almeno quattro o cinque boni motivi p’odià ‘sto novo Papa. Come si fa chiamà? Sisto V?
- E quali so ‘sti motivi?
- Ah oste dai su, rilassate un po’. A me n’me pare stia facendo troppo male.
È il 1585, Papa Sisto V è da poco stato nominato duecentoventisettesimo Papa della Chiesa Cattolica. Il vociare dell’osteria di Piazza Navona trentaquattro, a Roma, riempie gli spazi ampi e dorati che, ancora oggi, la caratterizzano. I clienti dell’oste trascorrono le giornate a discutere di ciò che succede nella loro amata città, tra un galletto ruspante abbrustolito sulla brace e anfore di vino buono.
Ed è proprio di vino, che si stava parlando quel caldo giorno di agosto.
- Ah non te pare, eh? Però ieri, quanno prima d’annà via te sei lamentato der conto che era troppo caro, te sei chiesto perché?
- E che c’entra er Papa, scusa?
- Eh che c’entra, che c’entra! C’entra che è per colpa sua se mo er vino costa er doppio! Ha aumentato le tasse sur vino, le tasse doganali, e pure altre cose che… lasciamo sta’ va!
Nel XVI Secolo le chiacchiere da piazza – o da osteria – non erano molto diverse da quelle a cui siamo abituati oggi. Lamentele per le tassazioni troppo alte, sulla politica (di stampo prettamente religioso, a quei tempi), probabilmente anche qualche commento sul meteo e sulla verdura al mercato che, il mese prima, era venduta a prezzi più bassi.
L’oste del 1500 di Piazza Navona 34 era ben abituato a queste chiacchiere, ne era un custode attento e premuroso. Sapeva come non farsi scappare nulla, per evitare liti rovinose all’interno del suo prezioso locale. È molto probabile che funzionasse più o meno come adesso: “Ve potete menà, ma fuori.”
Quella volta, però, a compromettere l’equilibrio della sua osteria fu lui stesso. Ignaro dell’eccentrica abitudine di Papa Sisto V di vestirsi come un popolano, per confondersi tra i cittadini e ascoltare di lui ciò che avevano da dire, l’oste di Piazza Navona confidò ai commensali l’insoddisfazione per il suo pontificato. Il Papa, che si trovava proprio nella sua osteria nel momento in cui lui lamentava le tasse sul vino troppo alte, decise di prendere, già dal giorno seguente, provvedimenti.
La mattina dopo, infatti, l’oste trovò davanti alla sua osteria, al numero 34 di Piazza Navona, una ghigliottina pronta a intrattenere una folla assetata di sangue.
Nel XVI Secolo la decapitazione era uno degli show più amati e seguiti dall’intera popolazione. Il patibolo veniva portato nelle piazze principali, come Piazza Navona per esempio, lasciato vuoto per alcune ore, per dare il tempo al popolo di far arrivare la voce in ogni angolo della città, e poi utilizzato per tagliare le teste ai mal capitati.
L’oste del civico 34 accolse con entusiasmo la forca di fronte alla sua attività, pronto a una giornata di lavoro piena: gli spettatori delle decapitazioni del 1500, si sa, erano ottimi clienti. Ignaro di girare per l’ultima volta le chiavi nella serratura della sua osteria, l’uomo fu arrestato non appena vi entrò, con l’accusa di ingiuria nei confronti di Papa Sisto V e l’ordine pendente di decapitazione immediata, proprio di fronte al locale.
Gli amici dell’oste, in sua memoria, fecero scolpire nel marmo il suo viso e lo posizionarono sopra l’ingresso dell’osteria. Se vi capita di camminare sui sampietrini di Piazza Navona alzate lo sguardo sul civico 34: il viso dell’oste è ancora lì.
Oltre a “chi si fa gli affari suoi campa cent’anni”, la storia dell’oste apre un immaginario solidissimo nella narrazione della storia di noi europei: la piazza. Vissuta fin dall’antica Grecia con l’agorà come luogo di scambio di idee, di socialità e di confronto economico, la piazza, ancora oggi, ricopre un ruolo fondamentale all’interno della socialità del genere umano.
La piazza nella storia
Come si diceva sopra, il concetto di piazza nasce in Europa, con le prime polis – città – dell’antica Grecia. Le agorà erano costruite per essere fonte di scambi sociali, di tipo politico ed economico, ma le attività diverse da quelle di tipo commerciale che vi si svolgevano (come i mercati), erano rivolte solo a uomini. Ad Atene le donne, i giovani e i figli nati da genitori stranieri – anche Greci – non potevano votare o prendere parte ad attività politiche di alcun tipo. Sorvolando sulle similitudini che si possono notare ancora oggi con la legislazione italiana del 2024, è facile accendere l’attenzione su come l’agorà fosse, a tutti gli effetti, un luogo di condivisone e di socialità.
I romani adottano poi il loro prototipo di piazza dai greci, trasformandolo in forum: l’idea e l’aspetto architettonico erano molto simili, così come le attività svolte sul suo suolo.
Oltre a essere centri politici, sociali, commerciali e religiosi, le piazze erano poli giuridici, che fungevano da veri e propri tribunali all’aperto. Nell’antica Roma i processi si svolgevano spesso nei forum o nelle basiliche, e i cittadini si dilettavano ad assistere allo show, discutendo su chi potesse avere ragione o meno. L’abbiamo pensato tutti: proprio come Forum, su Rete 4. Anche nei processi romani i temi trattati spaziavano da intrighi amorosi a corruzione e scandali vari. Non essendoci un sistema di accusa pubblica, spesso erano i cittadini singoli a portare avanti le accuse contro i loro nemici personali, riguardanti dispute, furti, violazioni di contratti o persino omicidi.
I secoli scorrono e il concetto di piazza si espande ben oltre i confini europei, raggiungendo gli angoli più remoti di tutto il mondo, senza mai perdere il suo aspetto sociale.
Oltre questo, però, la piazza assume anche un ruolo estetico negli anni, diventando oggetto di studi delle maggiori correnti architettoniche.
Cos’è oggi la piazza?
Ma quello che era per i romani luogo di giurisprudenza e per i greci di politica, che cosa è diventato per noi, oggi? Non credo ci sia una sola risposta esatta a questa domanda, ma per provare a trovare quanto meno una motivazione al perché ancora oggi la piazza è uno dei punti fondamentali della socialità dell’essere umano, basta scorrere i nostri feed social, o dare un’occhiata ai giornali. Scendere in piazza è tornato a essere un aspetto cruciale per far sentire la nostra voce e per tentare – spesso invano – di dare nuova luce ai nostri diritti. Si pensino alle manifestazioni per la violenza sulle donne dello scorso 25 novembre, o ai cortei degli studenti che stanno muovendo intere città lungo tutta l’Italia.
La necessità che spinge il genere umano ad avere un luogo comune, di condivisione, che non sia il mero schermo di un pc, andrebbe indagato sotto un punto di vista sociologico. Certo, l’uomo non è l’unico animale sociale sulla Terra. I branchi esistono dalla notte dei tempi, e la partecipazione sociale è da sempre punto di grande interesse per gli esseri viventi. Ma il fascino di questo fenomeno sta anche nel portarlo avanti e viverlo in un’era tutt’altro che sociale, dove al centro delle nostre esistenze poniamo il digitale e l’uso di intelligenze artificiali che fanno cose al posto nostro. Il coraggio e il bisogno della nostra natura di fare gruppo, branco appunto, va oltre l’abitudine di affidare i nostri pensieri a una tastiera o a un device. Scendere in piazza è una cosa che possiamo fare solo noi, con il nostro corpo e la nostra rabbia, con la nostra convinzione e la nostra necessità di dire ciò che il mondo ha bisogno di sentirsi dire.
Negli ultimi cento anni abbiamo imparato a usato le piazze così come stiamo imparando a usare i social network, ma con più efficacia. L’effimerità di un commento, di un video, di un post, si dissolve in circa ventiquattro ore. L’azione nelle piazze, la presa di posizione, ha un valore inestimabile, che si perpetua nel tempo. Pensiamo alle nonne e alle mamme argentine, Las madres y las abuelas de Plaza de Mayo, che stufe di aspettare si sono tirate su le maniche scendendo in piazza a Buenos Aires il 30 aprile 1977 per ritrovare i loro figli dispersi e venduti dalla dittatura argentina tra il ’76 e l’83. Oggi, grazie al rumore fatto in Plaza de Mayo quel sabato di aprile di fine anni ‘70, sono stati ritrovati centotrentatrè desaparecidos in tutto il mondo, e la ricerca continua.
Fine e… mezzi
Potremmo fare migliaia di esempi affini a quelli de Las Abuelas. Non sempre, però, scendere in piazza ha esiti a lieto fine. Pensiamo a Taksim Square a Istanbul nel 2013, dove il popolo si rivoltava pacificamente contro un governo che per rispondere usava inaudita violenza, o a Pechino, quando nel 1989 l’esercito cinese aprì il fuoco e liberò i carri armato su oltre centomila civili. Utilizzare la piazza oggi come uno dei più potenti mezzi di comunicazione, spesso si rivela un’arma a doppio taglio. Non ci serve andare in Cina o in Turchia per renderci conto di come sia semplice, per chi dovrebbe tutelarci, scaricare il peso della loro incompetenza e della loro incapacità di ascolto proprio sulle piazze gremite di persone. I fatti di Pisa, in cui poliziotti in antisommossa hanno ritenuto necessario manganellare studentesse e studenti delle scuole superiori – per lo più minorenni – durante un corteo pro Palestina, sono solo una delle prove lampanti di come il concetto di piazza oggi abbia assunto ben altri scopi e ruoli rispetto a quando fu ideata, circa 2500 anni fa. Chiedendo a Google il significato di piazza, emergono diverse definizioni da Oxford Languages. Riguardano quasi tutti l’aspetto puramente strutturale, architettonico e quello commerciale. Solo una recita “Luogo, spazio libero”. Riprendere questi luoghi, questi spazi liberi, con gli obiettivi delle nostre vite, che come macchine da presa si concentrano su ciò che ci circonda, senza farci travolgere, ma vivendolo attivamente, è un aspetto intrinseco della natura umana.
Ma dato per certo che la piazza sia nata da un bisogno organico dell’essere umano di possedere un luogo pubblico sicuro, di scambio e di ascolto, come abbiamo fatto, oggi, a tramutarla in un teatro di violenza e paura?