Elogio del fallimento

Un giorno un vecchio in mezzo al mare mi ha detto: “dovete imparare anche a perdere, a morire”.
In questo crogiolante e misero teatrino quotidiano della perfezione, cui assistiamo al giorno d’oggi, spettacolo del nulla, Fallire è una responsabilità. Una promessa indefettibile.
Abili consiglieri c’ammaestrano con le loro suggestioni, i loro suggerimenti.
Ci dicono come mangiare salutare, in che modo gestirci il danaro, come affrontare i problemi d’ansia, che foto postare della nonna che muore.
Abilissimi mentori del vuoto.
Questa società ci ordina la vittoria: a calpestare il corpo insanguinato di chi arriva dopo di noi. Ci ordina di splendere e di essere immortali.
C’illude di potercela fare.
Ci dice di correre, senza dirci mai la meta.
Corriamo verso dove? Verso cosa?
Cos’è che ci fa dannare come forsennati?
Cos’è che ci rincorre? Qual è il posto dove volete arrivare?
Non lo sapete, io lo so che non lo sapete.
Ci hanno insegnato a diventare e mai ad essere.
Chi siete veramente?Cosa provate? Cosa volete?
Tutti, a questo mondo, sono convinti di spiegare, di raccontare, d’insegnare.
Nessuno però ha mai un cazzo da dire.
Ma gli uomini che non hanno nulla da dire, cosa lasciano al mondo?
Scappiamo, arranchiamo, spingiamo come dannati verso l’oblio, verso un’esistenza putrida che ci passa sotto il culo fino allo spirare.
Dopodiché, il nulla.
Ecco cosa abbiamo lasciato: niente.
In questa marmaglia d’imperfezione, qualcuno si deve assumere il compito di Fallire, di perdere, di morire.

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