Dalla sanità per tutti a quella per pochi, fuggitivi e (s)fortunati

Dalla nascita del Servizio Sanitario Nazionale ad una salute a pagamento, priva di medici e garanzie. Un quadro storico che parte dal principio sino ai giorni nostri, dal perché eravamo i migliori ed ora il meglio del peggio.

Il quadro sociale

Il Servizio Sanitario Nazionale nasce il 24 dicembre 1978 con la legge di riforma sanitaria n. 833, che introduce un modello universalistico di tutela della salute, sostituendo il vecchio sistema mutualistico.

Stop, riavvolgiamo il nastro e torniamo a quei giorni: l’anno che volge al termine è stato ricco di fermento e di dolore, dalla morte di Aldo Moro ai ‘’3 papi’’ succedutisi, dalla legge sull’aborto al ‘’partigiano come presidente’’ Sandro Pertini. A guidare il governo chi se non lui, il democristiano Giulio Andreotti, e sarà proprio il suo esecutivo ad approvare la più importante legge sulla sanità del dopoguerra.

Sono due i sentimenti alla base dell’istituzione del SSN: la voglia di partecipazione e di giustizia sociale, sono anni di vitalità culturale ed emotiva, c’è voglia di riscatto e di uguaglianza.

Prima della approvazione della Legge le prestazioni accessibili ai cittadini erano diverse a seconda della loro mutua di appartenenza, gli ospedali avevano amministrazioni a parte, alcuni servizi erano dei Comuni, altri dipendevano dalle Province.

I principi ispiratori della L. 833/1978

  • Costituzione (1948): art. 32;
  • Dichiarazione Alma Ata (1978): ‘’[…] raggiungimento, entro l’anno 2000, di un livello di salute che permetta a tutti i popoli del mondo di condurre una vita socialmente ed economicamente produttiva. L’assistenza sanitaria primaria è la chiave per ottenere questo risultato’’.

I concetti alla base della legge

  • Bene collettivo: la tutela della salute non può essere perseguita individualmente da cittadini e famiglie in base alla propria possibilità economica, ma un valore che la società nel complesso persegue;
  • Universalità: accesso per tutti alle prestazioni offerte dal SSN;
  • Unitarietà: un solo ente erogatorie, il SSN;
  • Partecipazione: dei cittadini garantita con proposte, osservazioni ecc;
  • Organizzazione territoriale: i servizi vengono erogati dalle Unità Sanitarie Locali, la cui articolazione e regolamentazione è definita dalle singole Regioni.

Com’è composto?

Il Sistema Sanitario Nazionale prende forma in tre diversi livelli.

  • Il primo livello considera il governo centrale dello Stato e comprende tutte le Istituzioni correlate: dal Ministero della Sanità al Consiglio Superiore di Sanità fino all’Istituto Superiore di Sanità e alla Conferenza Stato-Regioni;
  • Il secondo livello, di tipo regionale e racchiude gli enti locali, tra cui: l’assessorato alle attività sanitarie; la Conferenza regionale permanente; l’agenzia per i servizi sanitari regionali;
  • Il terzo livello, di tipo territoriale per riuscire ad ottenere un’ampia presenza in tutto lo Stato.
    Include quindi sia le ASL, Aziende Sanitarie Locali, sia le aziende ospedaliere.

Dove ci si cura?

Strutture Pubbliche: sono finanziate a livello statale dal Servizio Sanitario Nazionale.

Strutture Private Accreditate: sono centri che sostengono il Servizio Sanitario Nazionale nell’erogazione delle prestazioni. La spesa di tali servizi è finanziata dal SSN o dal consumo privato. Tali aziende sono società for profit.

Strutture Private: sono enti i cui servizi sono accessibili ai cittadini attraverso una spesa a proprio carico. Tali aziende sono società for profit.

Dal meglio al peggio

Dall’analisi cui sopra, possiamo bene intendere come la nostra Nazione, a fine anni ’70 e a cavallo dei roboanti anni ’80, abbia previsto e messo in atto uno dei capisaldi dello Stato di Welfare: il diritto alla salute diffuso nella sua più larga scala.

Dalla messa a disposizione, concreta, di strutture e personale specializzato per la cura dei degenti, lo Stato Italiano – nella metà degli anni ottanta – concentrò le sue forze finanche su temi di prevenzione e ricerca. Il Ministero della Salute, infatti, risultò alquanto avanguardistico a livello comunitario grazie alla collaborazione con enti quali il “Centro di Collaborazione WHO/FAO per la Sanità Pubblica veterinaria” diretto per un lungo periodo dall’illustre Adriano Mantovani. L’Italia, da contributi simili, fu tra le prime nazioni occidentali a presentare un’attenzione sanitaria che andasse oltre la dicotomia “uomo-malato”, ma che abbracciasse quello che definiamo il c.d. approccio “One Health”, ovverosia un approccio sanitario che interessasse la salute non soltanto partendo dall’ammalato, ma da un sistema di eterointegrazione “natura-animale-uomo”.

Non è un caso, difatti, se il 70% delle malattie emergenti dell’uomo – riconosciute negli ultimi dieci anni – facciano capo ad un’origine zoonotica (fonte: Istituto Superiore di Sanità, report “1978-2018, quarant’anni di scienza e sanità pubblica).  Conseguenziale, dunque, risulta l’interazione peraltro ambientali, ove basti citare tra i tanti il ben noto Caso ILVA di Taranto.

Eravamo avanti, ed eravamo i migliori in ottica di qualità sanitaria individuale (medici, infermieri, operatori sociosanitari et cetera) e collettivo-amministrativa (strutture pubbliche, private e private accreditate).

Ma perché eravamo il meglio e adesso ne siamo, timidamente, il meglio del peggio?

Un cenno, probabilmente, è da porsi con un anno ben preciso: il 2001.

La riforma del Titolo V

A seguito della nota riforma del Titolo V della nostra Costituzione, il 18 ottobre 2001 si è affidata la tutela della salute alla legislazione concorrente tra Stato e Regioni, dando vita ad un sistema ricco di centri di poteri e ampliando il ruolo delle autonomie locali.

L’art. 117, brevemente, enuncia infatti capacità a legiferare in maniera esclusiva per lo Stato, riguardo specifiche materie, ma capacità a legiferare in maniera concorrente con le Regioni per altre; tra queste, la salute. La conseguenza è stata la nascita di un federalismo sanitario ufficioso e non ufficiale (questo arriverò “grazie” al DDL Calderoli sull’autonomia differenziata), capace di generare 21 differenti sistemi sanitari.

E, come abbiamo imparato dall’approccio One Health, tutto si eterointegra. Non viviamo in un mondo chiuso e ovattato, ma in un luogo fatto di interazioni, scambi culturali, sociali, che ne conseguono probabilmente l’applicazione del c.d. “effetto farfalla”.

Conseguenza di cui sopra è il quadro sanitario che rinveniamo, attualmente, sul territorio italiano: una gestione sanitaria inefficiente su piani pandemici (il Covid-19 nel 2020 ne ha dimostrato qualcosa); una retribuzione via via squilibrata; orari di lavoro per personale sanitario – sia pubblico che privato – ben oltre le ore contrattuali; immobili ospedalieri fatiscenti e non aggiornati alle norme edili di sicurezza UE; innalzamento della soglia pensionistica fino a 72 anni per la categoria medica; attrezzature vetuste.

L’elenco potrebbe durare per altre pagine, ParolAperta è sì “Aperta” ma non per una pubblicazione – tristemente – enciclopedica sulla “malasanità”.

Questione meridionale

Chiaro segnale di disequilibrio non lo si può che notare nelle regioni del Meridione e, personalmente, mi permetto di parlare brevemente della mia di Regione, la Calabria. Da qualche paragrafo a questa parte, infatti, chi scrive fa attivismo politico da due anni nella terra che gli ha dato i natali, si chiama Aldo Maria Cupello e sta battendo le lettere della sua tastiera con un rassodato nervosismo a riguardo.

In Calabria, il 96% dei macchinari per effettuare delle TAC risalgono al 2010, mostrando un chiaro dislivello tra le concorrenti settentrionali (che comunque non giovano di spiccata salute). Nella stessa regione, gran parte degli ospedali pubblici della costa tirrenica risale agli anni ’70, con un colpevole ritardo nell’ammodernamento di sistemi come quelli antincendio. L’ospedale di Locri, da ultimo, è famoso per avere un unico ascensore per far salire degenti ma anche immondizia da cestinare. Se il lato sanitario non è dei migliori, quello stradale non aiuta: fa specie il racconto di una mamma con una figlia affetta da una grave malattia degenerativa che, d’improvviso, potrebbe peggiorare. Quella madre dorme vestita per poter correre subito, in auto, presso l’Ospedale più vicino, in quanto i collegamenti autostradali – nell’interno calabrese – sono da decenni in via manutentiva e le ambulanze faticano ad arrivare.

Non parlo di Calabria certo per una qualche forma di fiero protagonismo, ma per presentare e presentarvi uno scenario che tocca solo una delle sei regioni del sud Italia ma che – dati Ministero della Salute 2022 – tutte insieme rappresentano livelli ben al di sotto delle fasce da garantire per i LEP (livelli essenziali delle prestazioni).

Eravamo i migliori, ora il meglio del peggio che, per di più, fa fuggire le proprie eccellenze mediche all’estero (tra il 2000 e il 2022 hanno lasciato l’Italia ben 400 infermieri e 3.000 medici l’anno, fonte: quotidianosanità.it)

Cosa si può fare?

L’autorevole giurista Sabino Cassese propone un “Parlamento sanitario Stato-Regioni”, per arginare quella discrepanza creatasi dal 2001 in poi. Lo propone da circa 8 anni a questa parte, ma destra e sinistra si impegnano a promettere ponti e a cambiare il nome della Camera dei Deputati in “Camera dei deputati e delle deputate”.

Cosa possiamo fare noi?

Ciò che, nel nostro, possiamo: scrivere articoli, manifestare, candidarci e via discorrendo. D’altronde Francesco D’Assisi lo diceva nel 1200:

“Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, la saggezza per conoscere la differenza”

Che crediate o meno, è una buona pista.

Aldo Maria Cupello e Pasquale Spatola

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