Collateralmente fenice

Ora vi racconto una storia di vita vissuta, che coinvolge me e una fenice.
Dicendo quest’ultima parola spiego già di che cosa si tratta, perché io, all’inizio almeno, non lo sapevo.
Eppure io ci sono sempre stata, con questa fenice, conoscendola per come si voleva far conoscere, in bilico sul mondo e sulla fantasia, con tanti sogni e desideri, come è normale per tutti quelli non troppo adulti.
E questa fenice era piccola e ansiosa e iniziò a sentirsi male, non ricordo precisamente quando, perché è stato tutto così graduale che quasi non me ne sono resa conto, ma le leggevo negli occhi una paura terribile di continuare a stare in quella situazione e una grandissima lotta, una lotta contro sé stessa, ingabbiata nella sua mente autodistruttiva.
Ho capito che non sapeva come essere aiutata.
Ma voleva essere aiutata.
Ho provato, eccome se ci ho provato, a salvare quella povera fenice, tentando di parlarle con parole più dolci o dandole carezze più forti, ma fu tutto inutile, mi guardava con occhi spaventati.
La fenice un giorno si accasciò, provata e invecchiata da quell’ansia che le aveva eroso tutta quella linfa vitale che la contraddistingueva e per aver provato a combatterla da sola.
Un signore un po’ burbero arrivò, vide il nostro caso e sospirò tristemente: era l’ennesimo caso di disagio, malattia mentale preso alla leggera. La chiamò così, marcandone il nome, dicendo che tutti sanno cos’è quella cosa senza chiamarla per nome, come se non ammettendo la realtà quest’ultima sparisse o cambiasse. La malattia arriva e fa star male, e c’è bisogno di tempo e di cura per tornare a stare bene.
Gli leggevo negli occhi la tristezza, e la consapevolezza che notizie come questa non fanno più scena, perché ci sono così tanti casi, e questo è terribile.
Dopo poco, questo signore smosse la casa, e con un’energia improvvisa dopo un momento di riflessione, imboccò la creatura accasciata, dandole delle pastiglie e accarezzandola.
Tornò tutti i giorni, sempre per più tempo.
Le parlava e la spronava e la fenice dal non aprire gli occhi continuò ad essere sempre più presente e a farlo sempre più spesso.
Iniziò a chiederle sempre più cose, pretendendo da lei sempre di più, e iniziò a mostrarle foto di altri casi che come lei erano stati male, per modi diversi, che avevano cucito nuove piume attorno ai loro corpi acciaccati e alle loro cicatrici dolenti, ma che avevano ricominciato a vivere un po’ di più, dopo un po’ di aiuto esterno.

Ci parlò di quella che non riusciva a vedersi nello specchio, che aveva pensieri pesanti ma una leggerezza allarmante, era affamata di un amore e di un’accettazione che non riusciva a trovare, che stava pian piano scomparendo.
Ci parlò di quella che aveva delle cellule impazzite che le davano fastidio qualche volta, facendola sentire strana e fuori posto sempre. E non si sentiva capita, e stava peggio, mentre soffriva nella sua piccola bolla di incomprensione.
Ci parlò di quella che dopo un brutto incidente non riusciva a parlarne senza ferirsi così tanto da piangere. Che di punto in bianco si incupiva. Che si sentiva bloccata nel tempo e nello spazio, obbligata a rivivere sempre quel momento.
Ci parlò di quella che aveva tanti problemi ma li nascondeva, fingendo sorrisi mentre dentro pioveva sempre. Che dormiva, e dormendo i problemi non sparivano. Che rimaneva giorni a casa senza riuscire a fare quello che doveva e voleva fare.
E tante altre.

Tutte loro, future fenici con una vita un po’ cancellata dalla loro stessa mente, tutte loro che non si sentivano aiutate.
Tutte che son dovute entrare in contatto col loro dolore, prenderlo come punto di partenza e non come ostacolo o punto di arrivo, ma come trampolino di lancio per poi allontanarsene, essendo aiutate da altre persone e da altri mezzi, per rientrare a camminare nella loro vita.

Un giorno la fenice morì, in mezzo a delle fiamme, e noi eravamo disperati, ma il signore burbero sorrideva.
La fenice rinacque piccina dalle sue tristi ceneri, era finalmente uscita da quella gabbia di terrore.
Aveva dei colori bellissimi.
Quando volava aveva una grazia indescrivibile.
Una bellezza collaterale che la faceva illuminare.
E le sue pesanti anche se leggere lacrime avevano poteri curativi.
L’ansia ora è un problema meno grave, è più felice di quello che deve fare, ha finalmente ritrovato la voglia di vedere il mondo e di viverlo, tutto a modo suo.

E questo mi ha fatto aprire gli occhi, ci sono così tante altre fenici là fuori.
Non vengono aiutate.
Vengono prese di mira.
Vengono dati loro nomignoli offensivi.
Bisogna imparare a dare un nome alle cose e alle persone, un valore, un supporto.
Perché il fiore che nasce nelle avversità, nei luoghi e nei momenti difficili è quello più bello, profumato e prezioso di tutti.

Ora la fenice gioca e vola, è tornata alle sue passioni, ora ha deciso che vuole parlare a nome di tutti coloro che soffrono un po’ di più, come ha sofferto lei, per farle sentire meno sole, perché è riuscita a incanalare quel dolore in altro, perché sa cosa vuol dire soffrire in silenzio, e non vuole che gli altri lo sperimentino, perché in fondo vuole un po’ cambiare le cose e sa che il primo passo è parlarne, destigmatizzare pensieri ormai obsoleti.

Mentre accarezzavo le piume di questa fenice ho pensato al nostro passato e mi ha fatto capire che da grande voglio fare la psichiatra, per accarezzare dolcemente le ferite degli altri, per ricucirne i lembi un po’ strappati, per dare un valore e un’importanza a ciò che ne uscirà fuori.

La fenice ha capito che da quel suo dolore ha ricevuto in cambio una dolcezza nuova, che le ha permesso di apprezzare la rinascita altrui, che non l’ha rinchiusa del tutto, ma le ha dato un’apertura speciale e una maggiore comprensione delle cose attorno.
Perché ha capito che al di fuori delle sue paure, anche se aveva timore di affacciarsi, il panorama che si vede è bellissimo.
E in fondo la vita è anche questa.
Forse.

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