Un caso delicato tra diritto e memoria collettiva
Francamente, la decisione del Tribunale di Taranto di fermare la distribuzione della serie Avetrana – Qui non è Hollywood non mi sorprende. Non perché abbia perso fiducia nella magistratura o perché creda che la giustizia sia ormai un circo mediatico. No, non è questo. Quello che mi sorprende è quanto poco siamo capaci di guardare oltre il nostro punto di vista, come collettività, quando si parla di storie così delicate.
Ricordo ancora le polemiche legate a Gomorra. Anche allora, l’idea che una serie potesse minacciare l’onorabilità di una città o di un popolo sollevò un dibattito acceso. La differenza, forse, è che in quel caso non si arrivò a bloccare la produzione in tribunale. Ma l’atteggiamento di fondo è lo stesso: ci muoviamo come tifoserie contrapposte. Da una parte, i difensori del “bene comune” e dall’altra quelli accusati di minacciarlo. Ma chi ci perde, in questi scontri, sono le storie, il racconto stesso della realtà.
Il caso Avetrana: più di una serie TV
Nel caso della serie su Avetrana, parliamo di una vicenda che ha sconvolto il Paese, l’omicidio di Sarah Scazzi, una giovane ragazza il cui nome è diventato un simbolo di una tragedia familiare che ha coinvolto un’intera comunità. La produzione di Pippo Mezzapesa non cerca di speculare sul dolore. Anzi, proprio la spettacolarizzazione del dolore è uno dei temi più criticati dalla serie stessa. Il rischio di un circo mediatico intorno a una tragedia reale viene mostrato e analizzato.
Eppure, la famiglia Scazzi ha presentato un esposto per fermare la produzione, temendo che la serie potesse riaprire ferite e arrecare ulteriore sofferenza. La magistratura ha accolto questa richiesta, sospendendo temporaneamente il progetto. Una decisione che, come detto, non mi sorprende, ma che invita a una riflessione più profonda sul ruolo delle opere audiovisive nel raccontare fatti di cronaca.
Serie TV e cronaca nera: tra fiction e realtà
Le serie TV prendono spunto dalla realtà, la rielaborano, la romanzano. È vero: raccontare una storia reale implica dei rischi. C’è sempre il pericolo di offendere chi vive ancora le conseguenze di quei fatti. Ma non possiamo ignorare il valore culturale di opere come queste, che non sono solo intrattenimento. Sono strumenti di riflessione, capaci di sollevare domande e far emergere temi che, forse, preferiremmo evitare.
Nel caso di Avetrana – Qui non è Hollywood, si va oltre la vicenda specifica di Sarah Scazzi. Si guarda all’Italia, a questo “mostro” che ci portiamo dietro e da cui non sappiamo distanziarci: la fame costante di sapere, di indagare nelle tragedie altrui, e, in un certo senso, di appropriarsi del dolore degli altri. Il progetto di Mezzapesa tenta di farci riflettere su questo, sulla nostra ossessione per il macabro, per il lato oscuro della cronaca, e su come, in fondo, ci mettiamo comodi di fronte alla sofferenza.
Il confine tra rispetto e censura
Comprendo il dolore della famiglia Scazzi, e nessuno può ignorare la sensibilità necessaria in questi contesti. Tuttavia, c’è una differenza tra la tutela del dolore e la censura di un’opera che cerca di raccontare, con il rispetto necessario, una storia che fa parte della nostra storia collettiva.
Bloccare una serie come questa significa impedire una riflessione più ampia su come la cronaca nera venga rappresentata e su come la società la recepisca. Non si tratta di Avetrana, come luogo fisico. Si tratta di tutti noi e del modo in cui reagiamo di fronte al racconto di una tragedia. E finché continueremo a muoverci come tifoserie, non riusciremo mai ad andare oltre, a comprendere la complessità di ciò che ci circonda.
Tiriamo le somme… e chiedo a voi
La sospensione di Avetrana – Qui non è Hollywood ci pone davanti a una riflessione inevitabile: da un lato, è singolare che si sia arrivati a bloccare una rappresentazione artistica dopo anni in cui il caso Scazzi è stato esposto a un’attenzione mediatica quasi ininterrotta. Dall’altro, non si può ignorare la responsabilità di tutelare i diritti fondamentali della persona, soprattutto quando il confine tra narrazione e spettacolarizzazione del dolore diventa così sottile.
È un esempio di come, nonostante la distanza temporale, il tema della memoria e del rispetto delle vittime resti ancora fragile e sensibile. E in un contesto come questo, la giustizia, in tutte le sue forme, deve spesso confrontarsi con questioni più complesse di quanto possa sembrare a prima vista.
Ora, resta da chiedersi se questa sospensione rappresenti un passo necessario per proteggere chi è ancora segnato da quel dolore, o se rischi di alimentare un silenzio che, alla fine, non fa che nascondere le domande più scomode su come affrontiamo la realtà nelle sue forme più crude. Una questione che merita, senza dubbio, una riflessione profonda da parte di tutti.