Attivismo online e infografiche: limite o risorsa?

Avrei potuto usare un’infografica per rispondere alla domanda che pongo nel titolo di quest’articolo e probabilmente avrei ottenuto più condivisioni e più lettori. Oggi sui social (e in particolar modo su Instagram) è frequente imbattersi in post informativi realizzati con la funzione slideshow (il carosello che permette di scorrere tra una foto e l’altra): dalla cronaca alla politica estera, dai diritti delle minoranze ai conflitti nel mondo, tutto sembra essere alla portata di uno swipe. Quanto, tuttavia, questi riquadri colorati con i loro caratteri accattivanti possono fare la differenza in un momento storico in cui l’attivismo online sembra essersi sostituito a quello “offline”?

L’emergere dell’attivismo online

Il 2020, a causa del lockdown mondiale imposto dalle autorità per prevenire il contagio da COVID-19, è stato un anno difficile per fare attivismo nelle strade o per partecipare fisicamente alle manifestazioni, dato il divieto di creare quegli assembramenti che prima della pandemia riuscivano ad attirare l’attenzione dei media. Tuttavia, le questioni di cui l’attivismo si è sempre occupato (diritti delle minoranze, crisi climatica, conflitti nel mondo ecc.) non hanno purtroppo smesso di destare preoccupazioni: come fare, allora, per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica su quei temi?

Il 25 maggio 2020 si verifica uno degli eventi mediaticamente più rilevanti degli ultimi anni: a Minneapolis, in Minnesota, il poliziotto Derek Chauvin trattiene per 8 minuti e 46 secondi il suo ginocchio sul collo di George Floyd, causandone la morte. Le manifestazioni in tutto il mondo che hanno seguito quell’episodio hanno voluto portare l’attenzione del pubblico sul tema del razzismo e dell’abuso di potere da parte delle forze dell’ordine. In contemporanea, le bacheche Instagram di milioni di profili social si riempivano di quadrati neri, l’hashtag #blacklivesmatter veniva condiviso dappertutto in segno di solidarietà al movimento impegnato nella lotta contro il razzismo. Non era raro in quei giorni imbattersi nelle provocazioni di alcuni utenti che, criticando il gesto, chiedevano come questo avrebbe aiutato la causa antirazzista. Per quanto la massiva adesione da parte di una comunità ad una dimostrazione (in questo caso virtuale) non possa passare inosservata e abbia ovviamente degli effetti concreti sulla mentalità comune e sulle decisioni politiche, alcuni utenti avranno sicuramente avvertito l’esigenza di fare di più per combattere il razzismo.

È proprio in quel periodo che sono nati migliaia di account social in tutto il mondo con il proposito dichiarato di fare informazione per evidenziare le dinamiche discriminatorie presenti nella società e fare sensibilizzazione su questo tema. Su Instagram, uno tra i social media più in uso tra i giovani, si è gradualmente affermata l’infografica come veicolo dei messaggi degli attivisti. Grafiche minimal, font marcati e colori accesi hanno portato sulle bacheche o nelle stories di milioni di utenti informazioni utili su argomenti ritenuti di interesse soprattutto per le nuove e future generazioni, riscuotendo un discreto successo.

L’iniziativa è certamente lodevole, specie alla luce dell’inchiesta condotta dal Wall Street Journal che rivela come Instagram possa influire negativamente sulla salute mentale delle ragazze: tra migliaia di foto che ostentano stili di vita invidiabili, i post che incoraggiano gli utenti ad assumere atteggiamenti di positività nei confronti del proprio corpo e della propria normalità sono certamente un’ottima risorsa. O ancora, infografiche che tengono al corrente gli utenti sulle difficili condizioni di vita per milioni di persone nel mondo, possono certamente aiutare a sensibilizzare i fruitori di contenuti social su questo argomento, permettendo loro di cambiare punto di vista. Ci sono però diversi problemi legati a questo modo di fare attivismo online.

I limiti delle infografiche

È molto raro imbattersi in un’infografica su argomenti come discriminazioni, conflitti e via dicendo che citi la fonte delle informazioni riportate. Questo è un problema per diversi motivi: fermo restando l’importanza della sensibilizzazione su tematiche spesso trascurate dai media tradizionali o dalla maggioranza degli utenti, è sempre fondamentale fare un’informazione trasparente e attendibile. In altre parole, non ci si può autoincensare ad autorevoli esperti in materia senza fare riferimenti a notizie, articoli o papers autorevoli. In un momento storico nel quale il dilagare delle fake news ha importanti conseguenze sulla politica e sulla vita comune e in contemporanea va sempre più ad affermarsi quella concezione definita post-truth (post-verità) in base alla quale si tende a dare maggiore rilievo al coinvolgimento emotivo del lettore che non alla veridicità di una notizia, non è difficile pensare che alcune delle questioni sollevate nelle infografiche possano essere volutamente ingigantite col fine di ottenere maggiore rilevanza (anche in termini di likes e condivisioni) e una reazione certa da parte degli utenti. Inoltre, l’assenza di riferimenti alle fonti spesso scoraggia i lettori ad approfondire autonomamente l’argomento: ci si limita cioè a leggere l’infografica, condividerla su Instagram e argomentare le proprie discussioni facendo unicamente riferimento a quanto riportato sul post. Si dà retta soltanto ad una versione dei fatti, priva di contraddittorio, semplice e superficiale come ogni post social richiede per ottenere un minimo di visibilità. Tutto ciò nuoce gravemente al senso stesso dell’informazione, che diviene parziale e approssimativa, volutamente orientata a veicolare un certo tipo di messaggio piuttosto che un altro.

Non scordiamoci, soprattutto, che Instagram, tra tutti i social network, è quello che più merita il paragone con una vetrina. I nostri profili sono vetrine alla mercé degli altri utenti e noi stessi riponiamo la massima attenzione in tutti i contenuti che pubblichiamo perché gli altri possano farsi un’idea di noi, la migliore possibile. Può allora fare comodo per la nostra vetrina condividere infografiche sull’inclusività o sull’ambiente, ma adottare nel nostro privato atteggiamenti discriminatori o inquinanti, talvolta senza neppure averne pienamente coscienza. Al di là dell’ipocrisia dell’utente medio, che è un fattore personale e non dipende sicuramente dalle infografiche o dai loro creators, la condivisione per il puro gusto di mostrarsi attenti ad alcuni problemi senza un degno approfondimento è problematico per lo scopo della sensibilizzazione: abbiamo davvero raggiunto l’obiettivo di migliorare i comportamenti di una persona se questa, pur condividendo un post sul razzismo, continua a usare nel privato termini razzisti?

L’attivismo online detiene comunque un primato su quello “offline”: l’accessibilità. Spesso l’attivismo tradizionale è relegato alle iniziative di circoli e organizzazioni con cui non è sempre facile entrare in contatto e che non sempre riescono a far sentire la loro voce come meriterebbero. Un esempio lampante sono state le recenti raccolte firme per referendum su temi quali l’eutanasia, la legalizzazione della cannabis e l’abolizione della caccia, che hanno goduto proprio grazie ai social di un’attenzione maggiore di quella che avrebbero riscosso limitandosi a banchetti e manifestazioni.

L’attivismo online, dunque, è sicuramente una risorsa e le infografiche possono contribuire alla sensibilizzazione del pubblico su molte tematiche. Non bisogna però considerarlo come fine ultimo della propria attività. I post sui social possono attirare l’attenzione, ma non possono cambiare le cose. Il cambiamento spetta a noi, alla nostra sensibilità e alla nostra capacità di metterci in gioco per costruire un futuro più equo, responsabile, inclusivo, ecologico. Le stories durano solo 24 ore, troppo poco per sperare che facciano la differenza.

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