Apri l’armadio

Apro l’armadio: “cosa mi metto? Tutti i giorni la stessa storia, ma perché ci siamo evoluti a tal punto da perdere la folta peluria antigelo, per ottenere in cambio dell’inutile pudore?”
Dai riproviamo, apro l’armadio: “dov’è la mia fottutissima divisa in stile college americano? Risparmierei almeno 5 minuti al giorno a causa della mia indecisione, che in una settimana sarebbero 35 minuti, in un mese 150, ed in un anno 1825. Circa 30 ore, praticamente una giornata intera, così, gratis.”
Dai posso farcela, apro l’armadio: “I jeans sono troppo scomodi. La felpa col cappuccio mi piace troppo, non la spreco per andare a fare giusto aperitivo. La maglietta bianca no, che tanto di sicuro mi sporco. Mammaaaa! La camicia a quadri è ancora a lavare?”
Ok, non sembra aver funzionato. Ancora un tentativo. Apro l’armadio. Annego.

Un jeans, per essere prodotto, ha bisogno tra i 7.000 ed i 10.000 litri d’acqua.
Una maglietta bianca, circa 2.700 litri: la quantità sufficiente per soddisfare il bisogno d’acqua di un uomo per circa due anni e mezzo. Eppure, ogni volta che apro l’armadio, non provo alcun senso di colpa, nessuna responsabilità. La sola Europa nel 2015, ha consumato la bellezza di 79 miliardi di metri cubi d’acqua per lavorazione, processione e commercio di capi d’abbigliamento. Nello stesso anno sono stati acquistati, nel vecchio continente, 6.4 milioni di tonnellate di vestiti: una massa superiore a quella della più grande tra le tre piramidi di Giza. Tale produzione si lascia dietro una sanguinosa scia di numeri come i 1.715 milioni di tonnellate di CO₂ rilasciati nell’atmosfera, i 92 milioni di tonnellate di rifiuti, ed una proiezione al 2030 dell’aumento di almeno il 50% di questi dati.

A tutti questi dati si potrebbero aggiungere quelli relativi all’impatto della coltivazione intensiva di cotone in America, quelli che raccontano dell’utilizzo di sostanze chimiche (classificate dannose per la salute e per l’ambiente dalla classificazione europea) durante il processo di tintura, quelli del trasporto, e ancora quelli che si rifanno all’inquinamento domestico. Solamente statistiche che, vista la mole nemmeno lontanamente avvicinabile dalla mente umana, lasciano per lo più indifferenti. Ma c’è una storia, un fatto umano, che racconta di come negli ultimi decenni l’industria dell’abbigliamento stia avendo un grande impatto sulla vita di migliaia di persone.

Dacca, 24 aprile 2013, Bangladesh. Il crollo di una palazzina causa 1134 morti e oltre 2500 feriti.

A questo punto è necessaria una dovuta correzione: d’ora in poi farò riferimento, attraverso la grammatica, al genere femminile, poiché più del 80% della forza lavoro nel settore tessile in Bangladesh è offerta dalle donne. Il Bangladesh è uno stato dalla forte tradizione patriarcale, all’interno del quale le donne non hanno mai avuto alcuna rilevanza statistica per ciò che riguarda i settori lavorativi retribuiti. In seguito alla combinazione di globalizzazione, politiche economiche neo-liberali e pressione della comunità internazionale, la rotta ha subito una deviazione, incrementando il settore del tessile e offrendo lavoro a numerose donne del territorio. Essendo, come detto, il Bangladesh un paese con una forte tradizione patriarcale, ed avendo come solo ed unico credo il profitto, è evidente come le condizioni di lavoro, le tutele e la retribuzione non si avvicinino minimamente allo standard a cui noi occidentali siamo abituati. A ciò vanno aggiunti gli elevati rischi per la salute a causa dell’esposizione continua a sostanze chimiche dannose per la salute e i frequenti casi di abusi e violenze sessuali all’interno delle fabbriche stesse. Il crollo della palazzina di Rana Plaza non può essere slegato dal contesto, ed è per questo motivo che, d’ora in avanti, verrà fatto riferimento al genere femminile per raccontare la vicenda.

All’interno di quella struttura affittavano gli spazi una banca, numerosi negozi ed appartamenti, ed alcune fabbriche di abbigliamento. L’edificio stava mostrando evidenti cedimenti strutturali, tali da attirare l’attenzione dei media e da allarmare i funzionari che lavoravano al suo interno, i quali non esitarono a dare l’ordine di evacuare l’edificio. Tutti lasciarono l’edificio, tranne i proprietari delle cinque fabbriche d’abbigliamento che, non solo diedero l’ordine di continuare regolarmente a lavorare, bensì in aggiunta minacciarono il licenziamento per tutte coloro che si fossero rifiutate. Il 24 aprile le lavoratrici furono costrette, mezzo minaccia, a recarsi in fabbrica. Iniziato il turno di lavoro, il cancello principiale venne chiuso per assicurarsi che nessuna potesse “sgattaiolare via”.

In giornata il crollo.

“[…] l’intera struttura crollò in meno di due minuti. Le mie gambe rimasero bloccate tra le macerie, e così ho perso una di esse. La testa, le mani e la schiena subirono gravi infortuni. Venni ritrovata dopo 5-7 ore e spedita all’ Enam medical college hospital.  Dopo 27 giorni di trattamento, venni rilasciata. Posso sentire il dolore nel mio corpo ancora adesso. Non posso muovermi senza l’aiuto di altre persone. Per liberarmi da una tale sofferenza, ho tentato il suicidio due volte.”

S. B., 24 anni

“Ho sentito che gli uomini che sopravvissero al crollo di Rana Plaza hanno trovato altre occupazioni. Ma chi assumerà me? Il datore di lavoro penserà che non sono in grado di investire totalmente nella mia forza lavoro, a causa della perdita della mia mano destra durante il crollo. Pertanto, adesso lavoro come prostituta, visto che devo mantenere me ed i miei genitori. Non sono preoccupata di venire infettata dalle malattie. Non posso obbligare i clienti ad usare preservativi, se non sono loro a volerlo.”

R.B., 28 anni

“Mio marito si è preso tutti i soldi del risarcimento danni. Adesso non sono assolutamente in grado di svolgere alcun tipo di lavoro a causa della frattura subita alla spina dorsale. Dopo aver preso i miei soldi, mio marito è sparito. Ho sentito che si è sposato di nuovo. Ora, chiedo l’elemosina per le strade della città. Mia figlia, che ha solo 9 anni, spinge la mia carrozzina.”

R.K., 23 anni

Quando mi è stato proposto di scrivere un articolo sull’impatto dell’industria tessile sul pianeta, ho accolto con grande entusiasmo tale opportunità. Non ne sapevo assolutamente nulla in tema di abbigliamento e pensavo che mi sarei trovato di fronte a qualche dato, a qualche articolo riguardante l’impatto ambientale, mai mi sarei immaginato di venire inghiottito, persuaso, rapito dal mondo che si nasconde dietro la produzione di una t-shirt.

Infatti, non è possibile slegare l’apparato economico dal contesto sociale all’interno del quale esso si sviluppa. Se oggi una t-shirt costa meno di 10€, se marchi come H&M e Zara promuovono decine e decine di collezioni l’anno, se la produzione dal 1994 al 2014 è incrementata del 400%, è anche perché dall’altra parte del mondo c’è una donna in sedia a rotelle che fa l’elemosina spinta dalla figlia di nove anni.

Questa vicenda alla fine è solo un fatto e rimane tale financo non vi sia consapevolezza. A quel punto diventa un messaggio di fronte al quale si compie sempre una scelta: lo si osserva, lo si ignora, lo si approfondisce, lo si combatte. Ci sono infinite possibilità, ognuna delle quali assolutamente legittima. Ciò che però non lo è, e non può esserlo, è la dolosa mancanza di conoscenza.

Ora Adamo ed [Eva] sua moglie erano tutti e due nudi, ma non provavano vergogna. Il serpente però era il più astuto di tutti gli animali della terra fatti dal Signore. Il serpente disse alla donna: È forse vero che Dio vi ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del paradiso? La donna rispose al serpente: Del frutto degli alberi che sono nel paradiso noi possiamo mangiare, ma riguardo al frutto dell’albero sito nel mezzo del paradiso Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, per evitare di morire. Ma il serpente rispose alla donna: Voi non morrete affatto. Poiché Dio sapeva che il giorno in cui ne mangerete, si apriranno i vostri occhi e sarete come dèi, conoscitori del bene e del male. La donna allora osservò l’albero ch’era buono da mangiare, era delizia per gli occhi e bello da contemplare, e prendendo del suo frutto ne mangiò e poi ne diede anche al marito, ch’era con lei, e ne mangiarono. Si aprirono allora gli occhi di ambedue e s’accorsero d’essere nudi; intrecciarono perciò foglie di fico e se ne fecero cinture intorno ai fianchi.

La tentazione e la caduta dell’uomo (Genesi alla lettera, Sant’Agostino,2, 25 – 3, 24)

Adamo ed Eva sentirono il bisogno di indossare una foglia di fico, una sola, per indicare il rimorso e la consapevolezza dell’errore commesso. Mutande, calze, pantaloni, cintura, camicia, giacca, scarpe… quanti errori stiamo tentando di nascondere?

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