Anime di legno

e jeans a vita bassa

Guardando il telegiornale, come mio solito (quasi) ogni giorno alla stessa ora, non ho potuto fare a meno di confermare un concetto molto forte nella mia mente: la morte è moda, la morte è guadagno, la morte è indifferenza, la morte è lucro.

Viviamo in una democrazia che ripudia la guerra, che ripudia la morte, proprio perché sappiamo bene che la morte fa paura. La nostra. La morte degli altri, invece, di quelli che stanno sì ad un passo da noi, ma ancora abbastanza lontani da non sentire nemmeno il lieve tepore delle fiamme che bruciano un altro Paese, allora a quel punto la morte può essere motivo di guadagno. È quasi un vantaggio.

Quella morte ha monopolizzato i contenuti del telegiornale, non si parla d’altro.

Mi chiedo, è mai possibile che improvvisamente non ci sia più nulla di cui parlare appena c’è un vago sentore di pericolo di morte?

Il Covid-19 non è più un argomento di cui parlare, lo stesso che forse più della guerra ci ha fatto paura, perché invisibile, perché ci ha tenuti chiusi in casa con noi stessi e la nostra coscienza, mostro egualmente invisibile. Quello che ci ha terrorizzati per due anni e ancora non ci molla è come se non fosse mai esistito.

Per la prima settimana di guerra non si parlava di altro, mezz’ora in cui si ripetevano le stesse parole, gli stessi servizi e le stesse scene, talvolta sfiorando il grottesco, sia per il modo di raccontare che per i contenuti raccontati, pressati nell’esigenza di una narrazione forzata, quasi d’inutilità sociale.

Non che non sia importante raccontare ogni aspetto di un Paese in guerra, questo assolutamente no, anzi. Sono fermamente convinta che più si sa e meglio è.

Ciò che tutt’ora mi lascia perplessa è il fatto che non si parlava più di quello che stava avvenendo nel nostro Paese, e non perché di cose da raccontare non ce ne fossero. Aspettavo sempre la fine del telegiornale chiedendomi quando sarebbe arrivato il nostro turno. Come se mi mancasse sempre un pezzetto. Come se mi mancasse l’autocritica interiore, dopo il tanto parlare degli altri e dei loro problemi.

Non che la guerra, non che la morte, non siano una priorità, ma di sicuro non sono l’unico aspetto della vita. Siamo talmente spaventati dalla morte che è l’unica cosa a cui pensiamo quando la sentiamo vicina, non riusciamo a prenderla come parte della vita stessa.

In questo caso, però, si tratta di guerra, cioè di una morte premeditata da parte di qualcun altro, più perversa di quella naturale. Ma questo ancora non mi aiuta a trovare una giustificazione al monopolio di quella strage su tutta l’informazione. Soprattutto se, come detto prima, si tratta di una morte ancora lontana da noi, in un certo senso. Quando le altre guerre, proprio perché lontane da noi, ci sono quasi indifferenti.

L’unica risposta che trovo è che la morte, se vicina a noi, fa paura, ma per fortuna è toccata a loro, così noi possiamo parlarne e farne notizia. Forse è proprio perché non è toccata a noi che ne possiamo parlare, perché c’è ancora qualcuno che può raccontare, perché c’è ancora qualcuno che può ascoltare.

Si pubblicano libri, giornali, podcast, articoli, se ne parla in televisione in tutti i programmi a tutte le ore, fino a che la bestia ferita non viene ridotta a brandelli. Ma la bestia ferita da questo tipo di informazione non è chi è colpito dalla guerra. La bestia ferita è chi viene a sapere della guerra. Siamo noi. Siamo noi, i masochisti che continuano, prima con il Covid-19 e ora con la guerra, ad auto raccontarsi storie di paura e di morte, ad amplificarle e perché no anche ingigantirle, solo e soltanto perché la paura vende.

Ho trovato una conferma a questo mio pensiero quando, dopo una settimana e mezzo di guerra, al telegiornale, che prima era sempre e solo guerra, si è ricominciato a parlare di Covid-19, del Papa e di crisi economica. La guerra, ci si è accorti, è troppo lontana, non ci ha colpiti e forse non ci colpirà. Quindi lo spauracchio, quello vero, è passato: ora possiamo continuare a fare altro. Ci siamo subito stancati, come quando va virale un video su Internet. Dopo una settimana non va più di moda. La guerra è moda e questo mi spaventa.

Parliamone. Dobbiamo parlarne. Non possiamo occuparci della guerra interamente e goffamente per solo una settimana e mezzo. Il nostro Paese si è reso conto che la guerra non ci toccherà, probabilmente, e che quindi possiamo tornare a disinteressarcene perché abbiamo anche altri problemi. Improvvisamente questi problemi ritornano, quando la guerra è passata di moda.

Non possiamo permetterci di avere anime di legno, ottuse e insensibili. Non possiamo permetterci di parlare di un argomento solo, monopolizzando l’attenzione o, al polo opposto, di trattarlo come i jeans a vita bassa. Sacralizzare un momento rendendolo intoccabile e l’attimo dopo laicizzarlo svendendolo a basso prezzo. Non dovremmo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Post correlati

Al Sud il turismo non basta

Quante volte abbiamo sentito tra i tavoli dei bar, sulle panchine nei parchi, nelle piazze e purtroppo anche in tanti comizi e interviste di politici

Agnes

Il pomeriggio in cui conobbi Agnes era crudelmente arido.Era l’agosto dei miei dieci anni. Nella mia impressione del tempo, quel mese aveva l’effigie di solo

Los muertos esperan por tí

“I morti ti aspettano, pistolero” mi disse una bruja, in una balera di notte, “te queda un ultimo tango”. Lo disse sul ciglio della porta,

© All rights reserved PAROLAPERTA 2023