Amore in gabbia: utopia o diritto?

E’ giusto che i carcerati possano vivere una vita amorosa?

Nel nostro sistema penitenziario sono tanti i problemi che fanno sì che non ci sia una effettiva
rieducazione e risocializzazione del detenuto, d’altronde è difficile che ciò avvenga all’interno di strutture che spesso tendono a violare i diritti fondamentali della persona. Questi problemi non sono soltanto di natura strutturale e quindi legati ad aspetti quali il sovraffollamento ma spesso e volentieri attengono alla sfera psicologica dei detenuti i quali, già posti davanti alla prospettiva di una vita marchiata dal fatto di dover scontare parte della propria vita dietro le sbarre, vengono privati di un aspetto fondamentale nella vita di ogni essere umano: la possibilità di vivere una vita amorosa. Sembra quasi assurdo parlarne, come si può pensare che chi abbia commesso dei crimini possa avere addirittura il privilegio di vivere una vita amorosa? Il punto centrale della discussione ruota intorno al ruolo ricoperto dal carcere in un paese democratico; il carcere, almeno da un punto di vista teorico, è uno strumento per la risocializzazione dei detenuti e non una discarica di soggetti considerati inadatti a vivere nella comunità. Viene naturale chiedersi come si può risocializzare qualcuno se questi venga privato dell’esigenza sociale per eccellenza ossia la possibilità di vivere
relazioni affettive.

La questione è inevitabilmente connessa alla tutela della salute mentale dei detenuti, basti pensare alle numerose rivolte che nel 2020 hanno caratterizzato la maggior parte delle carceri italiane e che come confermato dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria trovano la propria origine nella impossibilità di vedere i propri cari. Ma vi è un ulteriore dato che si pone in diretta relazione con la possibilità di vivere i propri affetti all’interno del carcere: il tasso di suicidi. Come riportato dall’associazione Antigone ogni cinque giorni vi è un suicidio all’interno delle carceri e tale situazione si pone in rapporto diretto con le condizioni psicologiche dei detenuti all’interno delle strutture penitenziarie. Come si pensa di riuscire a reintrodurre nella società civile qualcuno che vive una situazione di totale distaccamento da essa?

Tale situazione di disagio è testimoniata da alcuni estratti di lettere che il detenuto H.S. ha
indirizzato a dei volontari che operano all’interno delle carceri assistendo i detenuti:
‘’ Cara F. ti prego di contattarmi in qualche modo, ho bisogno del vostro aiuto. Questo carcere è un inferno, non funziona niente. Il colloquio lo faccio una volta al mese, sempre se a mia moglie danno un giorno libero a lavoro. Vi voglio bene H.S.’’

Questa è un estratto della lettera scritta da H.S, un detenuto nordafricano di 25 anni il quale
lamentava l’impossibilità di vedere i propri cari all’interno del carcere, tale lettera arriverà al
destinatario circa un mese dopo, ma nel frattempo H.S. si era tolto la vita in carcere.
L’autore della lettera già in tempi precedenti lamentava la difficoltà nel riuscire a sopportare il peso psicologico della lontananza dalla propria famiglia. H.S. subì un trasferimento in un istituto carcerario lontano dalla propria famiglia e fu così impossibilitato a lungo a vedere la propria compagna e il proprio figlio e ciò ha avuto un impatto devastante sulla salute mentale di costui, tanto da condurlo a preferire la morte ad una vita del genere.
Nell’inerzia della politica in materia di tutela dei detenuti è stata la magistratura attraverso una storica sentenza a muoversi nell’ottica di tutela dei diritti del detenuto in funzione alla sua
risocializzazione. Infatti, recentemente è stata proprio la magistratura a riconoscere il ruolo
fondamentale della famiglia e dei rapporti affettivi all’interno delle strutture carcerarie sancendo l’inviolabilità del diritto del detenuto ad avere rapporti, anche intimi, con i propri cari all’interno degli istituti penitenziari.
Sulla scia di quanto affermato dalla magistratura è auspicabile che vi siano interventi da parte della politica al fine di garantire questo diritto per far sì che il carcere non sia un mero strumento punitivo ma piuttosto un luogo dove riflettere sui propri errori, un luogo dove i detenuti possano intravedere la speranza di una vita migliore indirizzata verso la legalità e la civile convivenza e non un luogo di totale esclusione dalla realtà sociale, un luogo chiuso rispetto al mondo civile all’interno del quale regnano sovrani sconforto e disillusione rispetto alla possibilità di vivere una vita normale.

È possibile un modello differente?


Sebbene possa sembrare paradossale la possibilità di mantenere stabilmente rapporti affettivi anche all’interno delle carceri, non ovunque è così. Basti pensare al carcere di Aranjuez in Spagna il quale risulta essere un vero e proprio modello nella tutela della vita familiare dei detenuti. Per questo motivo la struttura prevede 36 celle riservate alle famiglie con bambini fino all’età di 3 anni all’interno delle quali sarà possibile avere rapporti con la propria famiglia, tale struttura penitenziaria inoltre prevede che il personale medico della struttura effettui visite mediche due volte a settimana per garantire la salute di tutti i membri della famiglia. Tra gli obiettivi perseguiti da tale penitenziario vi è non soltanto la tutela della salute mentale dei detenuti ma anche di quella delle famiglie dello
stesso; infatti, tale carcere attraverso un parco giochi al suo interno e con la predisposizione di celle decorate con personaggi della Disney tende a proteggere le famiglie dei detenuti da un eccessivo distacco dalla vita quotidiana che inevitabilmente andrebbe ad influenzare la psiche di questi. Infatti, il principio cardine di tale modello, così come nel carcere di Bastoy in Norvegia, è l’evitare un eccessivo isolamento dalla realtà civile al fine di garantire che vi sia una effettiva risocializzazione dei detenuti.

Esistono delle soluzioni?


Nel nostro paese sono numerosi gli interventi auspicabili in tale materia, in primo luogo sarebbe importante una disciplina più permissiva per ciò che riguarda le comunicazioni tra detenuti e la propria famiglia; giacché spesso, come nel caso di H.S., i detenuti vengono trasferiti in penitenziari lontani rispetto alle proprie famiglie, con conseguente difficoltà ad avere rapporti ravvicinati con esse, sarebbe importante implementare la possibilità di avere colloqui telefonici con loro in modo tale da offrire al detenuto una parvenza di vicinanza In secondo luogo, sulla scia del modello spagnolo, di profonda importanza sarebbe il garantire una continuità nei rapporti familiari attraverso la predisposizione di appositi locali all’interno delle strutture penitenziarie atti sia a ad avere rapporti intimi con i propri partner, sia a trascorrere del tempo con figli e parenti.
Per far ciò occorre innanzitutto cambiare la figura del detenuto nell’immaginario collettivo, è
necessario che questi venga riconosciuto come un normale cittadino con i medesimi diritti di chi vive all’esterno delle mura carcerarie e non come un peccatore che necessita di trattamenti degradanti e ‘chiavi buttate’. Tuttavia, nell’immobilismo generale della politica nel disciplinare la materia penitenziaria è naturale chiedersi se effettivamente vi sia la volontà di allinearsi ai diversi modelli europei per la gestione delle carceri o se, come spesso accade nel nostro paese, continuare a vivere nascondendo la polvere sotto al tappetto sminuendo, o quasi ridicolizzando, certi problemi non concependoli come tali per il solo motivo di non avere la capacità o l’interesse di affrontarli concretamente.

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