A lezione con Livio Gambarini presso il Salone del Libro di Torino 2024

Il Salone del Libro di Torino catapulta i suoi ospiti in un mondo letterario fervente, denso di occasioni di formazione personale e professionale. Il programma è fitto di incontri e attività che si intersecano e si sovrappongono con l’idea di assecondare e soddisfare le enormi aspettative dei suoi visitatori.

In questo miscuglio eterogeneo, con nostra grande sorpresa, Livio Gambarini ci ha gentilmente concesso non soltanto un’intervista, ma una lezione estremamente personalizzata.

Il professor Livio Gambarini è docente al corso di Alta Formazione “Il Piacere della Scrittura” presso l’Università Cattolica di Milano. Scrittore di romanzi storico-fantastici, egli è fondatore di “Rotte Narrative“, piattaforma sulla quale distribuisce corsi specializzanti di scrittura, con particolare focus sulla narratologia ed anche sulla scrittura per la voce, rivelandosi uno tra i primi e principali writing coach italiani.

L’intervista integrale

Essendomi presentata in anticipo allo stand di Acheron Books, attendo Livio sfogliando i libri della sua saga: Eternal War. Come folgorata, afferro la mia agendina e annoto una domanda dell’ultimo minuto che non avrei potuto ignorare: dopotutto, i suoi protagonisti sono due poeti e con la poesia mi piace e ci piace dilettarci…

Perché non esistono libri per tutti?

È una domanda semplice con una risposta molto complessa che richiederebbe una lunga trattazione. Riassumiamola il più velocemente possibile. Un tempo c’erano molte meno persone capaci di leggere ed erano quasi tutte persone appartenenti a un’élite, quindi una classe sociale abbastanza omogenea al suo interno. Oggi tutti quanti sappiamo leggere e l’interezza della società potenzialmente può leggere.

Questo fa sì che l’interezza della società trovi una segmentazione all’interno dell’editoria e quindi quello che un tempo poteva rivolgersi a quel gruppo ristretto, oggi invece deve potersi rivolgere ai tanti sottogruppi che sono ospitati all’interno della società. Anzi, oggi la società è molto più differenziata di quanto non lo fosse un secolo fa. Uno scrittore che punti alla scrittura personale, privata, che sia per diletto o per altre ragioni relative alle proprie sfere sociali, non ha bisogno di pensare a un pubblico definito, non ha bisogno di pensare ad altro che l’esperienza della scrittura e della lettura ai propri amici, parenti e via dicendo.

Chi invece punti alla scrittura per un pubblico freddo non può oggigiorno prescindere dalla consapevolezza di chi siano i lettori a cui intende rivolgere quello specifico libro. Non soltanto i contenuti contano nel confezionamento di un prodotto culturale, bensì anche il linguaggio. La scelta del repertorio paratestuale: la copertina, le parole che si impiegano nella quarta di copertina, sono tutte scelte che non possono prescindere dalla conoscenza di coloro a cui si rivolge il prodotto libro. Non possiamo nemmeno dimenticare che il libro è un oggetto dotato di due anime.

Ha un’anima di opera, quindi un’anima immateriale e culturale, ma ha anche una seconda anima che è assolutamente corporea ed è un’anima di prodotto, quindi un oggetto aperto alla vendita su un mercato ed entrambe queste due anime devono essere conosciute e tenute in debita considerazione se si vuole proporre un buon libro.

Come nasce una casa editrice? Basta il progetto oppure è necessario avere già un pool di scrittori?

Di case editrici in Italia ne nascono ogni anno veramente tantissime, nell’ordine delle migliaia, e sono un numero paragonabile le case editrici che ogni anno in Italia chiudono, falliscono, per bilanci dissestati.

Sono tanti i moventi per cui una persona decide di diventare editore, alcuni, molti che ho conosciuto, sono nati editori partendo come scrittori, quindi si sobbarcavano questa difficoltà, questa complessa operazione di aprire un’azienda – perché di un’azienda si tratta – per pubblicare i propri libri in alternativa al self publishing, e poi una volta iniziato ci prendevano gusto e ne pubblicavano anche altri.

Di motivi ce ne sono parecchi. Può essere l’adesione a una causa, a un modo di vedere, la volontà di valorizzare un tipo specifico di cultura o di località o di tematica che non trovi un viatico nella narrativa mainstream o nella saggistica mainstream, oppure per tutta una serie di motivazioni personali.

Io posso dire che aprire una casa editrice è un modo velocissimo per farti un sacco di amici, perché quando qualcuno apre una casa editrice, tutti gli aspiranti scrittori che conosce – e scoprirà di conoscerne molti più di quanti si aspettava – improvvisamente lo riempiranno di coccole, di inviti a cena e di bottiglie regalate a Natale.

Ahimè, i tassi di chiusura e di fallimento delle case editrici non sono incoraggianti e questo dovrebbe spronare tanti di coloro che a un certo momento provano questo impulso, che è una bellissima cosa, a ragionare bene su quello che stanno facendo: aprire una casa editrice significa sostanzialmente scegliere di diventare imprenditore. Il fatto che i prodotti siano libri non cambia: si diventa commercianti, e questo richiede un bagaglio culturale, di competenze e di esperienze, diverso da quelle che sono necessarie a un autore, per esempio.

E questo purtroppo è quello che manca a tante case editrici che si ritrovano poi ad impelagarsi su aspetti legati al marketing, alla selezione delle opere, anche all’impostazione del piano editoriale, ossia l’identità della casa editrice. Molte case editrici si ritrovano a pubblicare un po’ di tutto e a diventare un po’ raccogliticce, e questo ahimè rende meno probabile che la casa editrice regga alla prova del tempo. È un discorso di massima, ci sono sempre le eccezioni, però le case editrici che invece mostrano di reggere meglio la prova del tempo sono quelle che assumono un’identità precisa. In un certo senso si specializzano o, detto con il gergo di marketing, trovano il loro posizionamento all’interno dell’ecosistema dell’editoria.

Qual è il problema del fantasy in Italia? Perché i lettori ci sarebbero, però a parte il caso fortunato di Licia Troisi, non ci sono molti nomi di spicco…

Mettiamo da parte il caso di Licia perché è avvenuto in un’altra epoca editoriale, non è più quella attuale e peraltro è legato a circostanze difficilmente replicabili al di fuori del suo singolo caso. Ragioniamo concentrando l’attenzione sull’epoca editoriale post Covid, quindi dal 2021 in avanti.

In realtà, possiamo notare come rispetto al decennio scorso la situazione stia migliorando molto. Ci sono diverse nuove aperture sia nelle case editrici medie sia nelle case editrici grandi. Un esempio ne è Oscar Vault che ha pubblicato la trilogia di Andrea Butini negli scorsi mesi e Andrea Butini era un assoluto esordiente senza nessun aggancio nell’ambiente editoriale. È stato pubblicato da una collana di Oscar con un publishing assolutamente competitivo rispetto ai suoi omologhi internazionali.

È una sperimentazione, sì, però anche in Giunti abbiamo visto cose simili e perciò anche nelle stesse big che sono state refrattarie per un intero decennio post Licia Troisi nella pubblicazione di autori che non fossero influencer, che non avessero già un vasto pubblico di follower, adesso qualcosa stiamo iniziando a vederla. Soprattutto sta cambiando il sottobosco, sta cambiando il retroterra culturale. I lettori sono quelli che plasmano il mercato e i lettori hanno passato gli ultimi 10-12 anni a non trovare libri ambientati a casa loro, con il linguaggio a loro familiare, con i dialetti all’interno delle opere, dialetti familiari eccetera eccetera, se non in piccole case editrici del fantastico, virtuose come Dark Zone, Plesio, Acheron Books.

A queste e ad alcune altre i lettori si stanno affezionando e tali case editrici riescono effettivamente a portare dei prodotti che il pubblico mostra di volere, ma che non trovava nelle grandi case editrici. Si sta innescando un bel fermento soprattutto al di fuori del circuito editoriale tradizionale: nel self publishing, tra i self publisher, ci sono stati alcuni enormi successi nel campo del fantasy negli ultimi mesi… Autori che con le loro opere fantasy e non solo, stanno ottenendo cifre di vendita che possono tranquillamente competere, e in molti casi superare, le cifre di vendita degli editori piccoli ma anche delle stesse big. In effetti i principali competitor delle big non sono le altre big (anche se loro non se ne sono ancora accorte), bensì sono i self publisher e questo è sicuramente una cosa da considerare.

Poi, tu mi chiedi qual è il problema del fantasy… non è uno solo, sono tanti. Partiamo da un retroterra letterario molto legato al Realismo, al Verismo, che da lì in avanti ha sempre visto la narrativa speculativa come qualcosa di serie B, mentre invece le nazioni europee e mondiali che sono venute da una tradizione legata al Romanticismo non hanno patito questo grado di resistenza nell’ambiente accademico, nell’ambiente universitario, nell’ambiente culturale. Noi purtroppo sì. Anch’io vengo da un retroterra di studi umanistico, classico, lo so bene e questo pregiudizio è ancora molto consolidato, seppure con l’andare degli anni, poco per volta, si stia erodendo.

Gutta cavat lapidem – la goccia scava la pietra. I cambiamenti iniziano a notarsi. Qualche mese fa è uscito un saggio di un docente universitario del Sud Italia dedicato alle mie opere fantasy.

Per me è stata una sorpresa assolutamente apprezzata e inaspettata: iniziano a esserci delle aperture persino in quel campo, ma non è l’unica questione, ci sono questioni di natura editoriale. Gli stessi editori che in passato hanno pubblicato e tuttora pubblicano il fantasy in traduzione di autori stranieri, spesso non capiscono e non conoscono bene il fantasy stesso e non operano criteri valutativi di qualità quando selezionano le cose da pubblicare. Vende, quindi lo pubblico, ma non è che pensi che ci sia dietro qualcosa e questo è un atteggiamento molto nocivo ma non dobbiamo dare la colpa soltanto agli accademici e agli editori. Come sempre la cosa più virtuosa e la cosa anche più efficace per raggiungere risultati, per ottenere i cambiamenti, è sempre cercare quello che possiamo cambiare in noi stessi per ottenere il meglio possibile.

Il mio consiglio in questo senso è cercare di leggere, se si ama il fantasy, ogni anno almeno un paio di autori italiani di fantasy che abbiano pubblicato nell’ultimo quinquennio.

Spunti per combinare storia e fantasia?

Il fantasy storico è il genere che ho approcciato per la mia saga Eternal War ed è stata un’esperienza molto affascinante, molto complicata anche perché non è facile, bisogna partire da una solidissima documentazione storica, bisogna tanto per cominciare approcciare la materia con la stessa serietà, lo stesso scrupolo con cui si affronterebbe un articolo saggistico o un romanzo storico molto accurato. Almeno per la fase di documentazione.

Poi è chiaro che bisogna ragionare in termini di world building, quindi nelle pieghe lasciate vuote dalla storia, lasciate all’ombra della storia, si può edificare qualcosa che non è detto che ci fosse.

Ma quell’oscurità va sfruttata in modo che non snaturi, non stravolga la componente storica. In un certo senso dovrebbe valorizzarla. Ci sono vari approcci al historic fantasy.

Alcuni utilizzano la parte fantasy come un contorno all’interno di un piatto unico, lasciando la storia al centro. È quello che ho fatto io con Eternal War. Non è per forza l’unico modo possibile.

Altri possono scegliere di usare la storia come contorno per il piatto forte che è la componente di fantasy, ma quale che sia l’approccio da scegliere secondo me bisogna trovare il giusto connubio e bisogna trattare il più delicato dei due (la storia) con l’attenzione e lo scrupolo che non sempre vedo dedicata in grado sufficiente.

In Eternal War il tuo personaggio è guerriero e poeta: qual è il ruolo della poesia? Nella tua storia, meglio: nella società?

Una domanda proprio da bruschette e Spritz! Ovviamente bisogna sempre contestualizzare quando si parla di cultura, quando si parla di prodotti culturali, bisogna sempre capire che non esiste qualcosa di assolutamente astratto alla società. Ogni forma culturale va letta e analizzata in relazione all’epoca e alla società di cui è espressione, in cui viene formulata. Nella mia saga Eternal War, visto che mi domandavi, ho scelto come protagonisti Guido Cavalcanti e Dante Alighieri che erano i principali esponenti del Dolce Stil Novo, perché quella è stata la forma culturale che più ci è rimasta impressa a livello storico dell’epoca in cui loro sono vissuti, e questo fa di loro due interpreti, due traghettatori, due psicopompi ideali per portare il lettore a reimmergersi in un’epoca storica lontana dalla nostra.

Se parliamo di cosa sia la poesia ai giorni nostri, in una società così enormemente cambiata rispetto a quella di Cavalcanti e di Dante, come pure di Ariosto e di Pascoli e di Leopardi, io probabilmente ti dovrei in onestà rispondere che non ne ho idea. Non ne sono un grande praticante se non quel che sento dire dagli editori che conosco, che pubblicano poesia e che hanno un po’ l’atteggiamento da martiri perché la poesia fatica a vendere. Ancora serbiamo grazie al canone classico e alla cultura umanistica, l’affezione, l’importanza attribuita alla poesia storica, novecentesca, ottocentesca e a risalire, e quindi magari si continuano a vendere raccolte, riedizioni dei poeti classici, dei poeti del passato, ma la mia impressione è che la poesia oggi fatichi a trovare nelle forme classiche la stessa vitalità d’impiego e di espressione della società che aveva un tempo. Oggi quella vitalità di impiego la vedo trasferita nei videogiochi, la vedo trasferita nelle graphic novel, la vedo trasferita neanche più nel cinema, il cinema è un medium anziano ormai, è un medium ripiegato in un manierismo evidente. La vedo nei videoclip, la vedo nei reel di Instagram, la vedo nei video di Tik Tok e quelle sono probabilmente le opere culturali che sceglierei a posteriori se dovessi studiare la società contemporanea. Lo dico con la morte nel cuore da studente di materie umanistiche, ma in tutta onestà… questa è la mia risposta.

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