E non è una cattiva idea.
“Stavo vivendo in maniera nichilista la mia vita. Non riuscivo a crearmi delle sollecitazioni, impulsi alternativi al calcio. Allenamento, casa, tv, dormivo. E ancora. Mi sono appassito come persona”. Poco prima di diventare campione del mondo Gianluigi Buffon ha sofferto di depressione. A 26 anni era uno dei portieri più forti del mondo, nonché pilastro della Juventus. Eppure sentiva “tremare le gambe”, era triste, solo, o meglio isolato. All’epoca questi fatti sono rimasti privati, e poi Buffon ne è venuto fuori (anche) grazie a una psicologa, trovando la forza di parlarne in pubblico solo molti anni dopo. “Ho sviluppato gli anticorpi”, dice. “Se la depressione dovesse ripresentarsi, l’aspetterei al varco”.
Non tutti hanno la fortuna che ha avuto Buffon. La fortuna, cioè, di trovare dentro di sé la forza di liberarsi della depressione – che non è scontato nemmeno quando si parla di celebrità, campioni, déi o semidei. Il tema della salute mentale degli sportivi è stato molto dibattuto negli scorsi mesi, gli stessi in cui scoprivamo che il 5% degli italiani avrebbe bisogno di accedere a servizi di sanità mentale ma non riesce a farlo. Un anno fa di questi tempi un altro calciatore, Josip Iličić, rinunciava a giocare i quarti di finale di Champions League a causa di una crisi depressiva. Il 31 maggio scorso, invece, la tennista Naomi Osaka si è ritirata dal Roland Garros per le pressioni ricevute dagli organizzatori del torneo, in seguito alla decisione di non presentarsi alle conferenze stampa. Per motivi in parte analoghi, ancora più di recente, la ginnasta Simone Biles si è ritirata da una gara alle Olimpiadi di Tokyo.
In generale, si può affermare che gli atleti stanno iniziando a rifiutare l’idea di nascondere le proprie condizioni mentali: ed è una tendenza rivoluzionaria, nel mondo in cui il modello dominante resta quello dell’atleta perfetto e inscalfibile, eccezionale agonista ma benevolo, bravo tanto in campo quanto ai microfoni e sui social. Ed è chiaro che nulla impedirà a nessuno di apprezzare la mentalità ferrea di uomini-robot à la Cristiano Ronaldo, ma nel mondo dello sport si sta iniziando ad accettare l’idea che si può essere uomini-robot, non si deve esserlo. Un passaggio fondamentale.
Se è vero che nello sport si riflettono sempre dei cambiamenti sociali, non può essere un caso che la sensibilizzazione sulla salute mentale degli atleti abbia avuto un’accelerazione dopo le varie misure restrittive e, di conseguenza, la forzatura a passare del tempo in isolamento. Nelle parole di Christian Pulisić, calciatore del Chelsea: “È stato un periodo difficile per molte persone, me compreso. […] Vivo da solo e a volte può essere dura. Quando tutto dipende da te, può pesarti davvero molto. In questo periodo ho contattato uno psicoterapeuta ed è qualcosa di cui nessuno dovrebbe vergognarsi”. In verità si trattava di un processo educativo in atto già prima della pandemia, soprattutto fuori dall’Italia, ma è innegabile che ci sia stato uno sprint negli ultimi mesi, come testimoniato dalla scelta della già citata Naomi Osaka come tedofora per le Olimpiadi di Tokyo.
“Ne usciremo migliori”, affermavano i più ottimisti all’entrata del lungo tunnel pandemico. Non è stata una previsione azzeccata, ma almeno lo sport ai massimi livelli sembra aver colto uno spunto positivo dalla faccenda. La salute mentale, d’altronde, è importante tanto quanto la salute fisica degli atleti e di quella vi avevamo già parlato qui, in merito al caso specifico dei calciatori. L’atleta che rinuncia a una gara – per cui ha lavorato tutta la vita – per poter tutelare se stesso sta dicendo qualcosa, e soprattutto ci sta mettendo davanti a una questione impegnativa: quanto c’è di sano nello sport ai massimi livelli?
Per come funzionano le menti dei giovani, è normale che si riconoscano più facilmente nelle gesta di uno sportivo anziché in altri modelli. E gli atleti sembrano volersi assumere questa responsabilità anche quando si tratta di esporsi sulle questioni più delicate, fra l’altro attirando su di sé tutto un alone di discorsi inopportuni che tristemente fanno ancora parte del dibattito pubblico sui temi di sanità mentale. Purtroppo, su quest’aspetto della responsabilità, va ancora rilevata una certa arretratezza da parte degli atleti e dei media italiani. Una testimonianza recente, ad esempio, è arrivata dalla pessima gestione nella comunicazione della scelta di (non) inginocchiarsi in sostegno al Black Lives Matter prima delle partite degli Europei di calcio. In fondo, siamo ancora il Paese dove Buffon ha preferito soffrire in silenzio.