Il calcio è lo sport più seguito e praticato al mondo, e in molti ormai ne conoscono la storia. Divenne popolare soprattutto perché offriva una vera occasione di riscatto alla fascia sociale medio-bassa (in particolare ai lavoratori delle fabbriche inglesi, spesso sottopagati) che tramite lo sport riusciva a dare un rinnovato senso alla propria vita. Esso, quindi, acquisì visibilità e prestigio nel Regno Unito come sport del popolo, per quanto le sue vere origini siano ricollegabili addirittura alla Cina del III secolo a.C., all’Antica Grecia e al Rinascimento italiano, col tutt’ora esistente calcio fiorentino. Eppure oggi il calcio professionistico ci sembra diventato tutto tranne che uno sport popolare. Certo, rimane occasione di rivalsa sociale per pochi fortunati, soprattutto in aree particolarmente povere come le favelas brasiliane, e anche nel nostro Paese contribuisce a dare visibilità a territori e piccole realtà che altrimenti rimarrebbero molto più nascoste (come nel caso del Sassuolo e dell’Empoli che grazie alla militanza in Serie A e Serie B ricevono tutt’ora molti riconoscimenti per quanto siano comuni di poche decine di migliaia di abitanti). Ma cosa succede a grandi e piccoli club nelle massime serie europee? Come si è arrivati dallo sport povero di Sheffield e Stoke City al Manchester City degli sceicchi?
Innanzitutto, va tenuta in considerazione la grande popolarità che il calcio ha acquisito nel corso dei decenni. Esso, infatti, ha iniziato già dalla metà dell’Ottocento una rapida diffusione in tutta Europa e, successivamente, nel resto del mondo grazie ai frequenti viaggi compiuti dagli inglesi principalmente per commercio e per le numerose conquiste coloniali. Nell’arco di mezzo secolo era già divenuto uno degli sport più diffusi in Europa e in America Latina grazie soprattutto alla propria semplicità. Ma come ogni sport che riesce ad acquisire una certa visibilità, presto si presentò la necessità di farlo diventare un vero e proprio business. Sempre più acquirenti, in molti casi vere e proprie aziende, si affrettarono ad acquisire la proprietà dei principali club europei facendo circolare al loro interno sempre più denaro e aumentando sempre di più gli stipendi dei calciatori. (Potete approfondire la storia del calcio sul seguente link: https://www.my-personaltrainer.it/sport/storia-calcio.html)
Ad oggi, uno dei problemi più risentiti, soprattutto in Paesi come l’Italia, è la scarsità di opportunità date dalle squadre ai giocatori della propria nazione. Non è, però, sempre stato così. Nel 1908, infatti, la Federazione italiana decise di escludere completamente i giocatori stranieri dal calcio italiano. Nel secondo dopoguerra, però, si alternarono chiusure e aperture delle frontiere aumentando gradualmente i limiti dei giocatori stranieri che ogni club poteva tesserare per poi bandirli di nuovo nel ’65. Poco più di un decennio dopo, però, da Bruxelles arrivarono sentenze relative all’abolizione di ogni limite nei club calcistici della Comunità Europea, finché nel 1995 con la celebre “sentenza Bosman” si stabilì che non potevano “essere posti limiti né alla tesserabilità né all’utilizzo in campo degli atleti nei campionati professionistici comunitari”. Il problema di questa sentenza deriva però dal fatto che vengono messi sullo stesso piano il calcio e gli altri lavori, per i quali ovviamente i trattati comunitari prevedono la libera circolazione. Gli aumenti degli stipendi e l’evoluzione dello sport hanno indubbiamente reso il calcio un vero e proprio lavoro per molti, ma andrebbe tenuto conto che a differenza di molte regolari mansioni esso necessita di veder riconosciuta una tutela del proprio carattere nazionale. Fu addirittura Andreotti a sostenere l’importanza di un limite di stranieri nel proprio campionato soprattutto per non penalizzare la nazionale italiana, che salvo la parentesi Euro 2020 (a detta di molti un singolo episodio “miracolato”) continua a far vedere le proprie profondissime lacune. (Per approfondire il tema, consiglio l’apertura del seguente link: https://www.rivistadirittosportivo.it/Article/Archive/index_html?ida=193&idn=16&idi=-1&idu=-1)
Un altro grandissimo problema a livello internazionale è la scarsità di limitazioni allo strapotere economico dei grandi acquirenti dei club. Abbiamo avuto prova in passato di come in Europa il cosiddetto fair play finanziario sia un sistema decisamente fallace (club come il Milan vengono sanzionati alla minima infrazione mentre giganti europei come il Chelsea e il Barcellona fanno chiudere spesso più di un occhio), ma nell’ultimo anno abbiamo assistito ad uno spettacolo ancora più squallido con centinaia di giocatori e allenatori – anche giovani e promettenti – che hanno lasciato l’Europa per guadagnare milioni e milioni l’anno nei Paesi arabi. Il tutto, quindi, si è trasformato in un giro di denaro in cui molti atleti tendono a preferire territori privi di alcuna tradizione e cultura calcistica a club storici in cui comunque, sicuramente, gli stipendi non sarebbero da fame. Parliamo del progressivo decesso di uno sport che ha voluto lasciare il concetto di etica lavorativa in mano a dei ventenni che si ritrovano a dover gestire migliaia, se non milioni, di euro con l’ausilio di agenti che ovviamente devono fare semplicemente i propri interessi.
Ritengo che ad oggi, in Paesi come l’Italia in cui il denaro ha sostituito la tradizione sportiva, il calcio vero e romantico lo si possa trovare unicamente a livello dilettantistico e semi-professionistico. Andare in categorie che il business non ha ancora toccato, come l’Eccellenza e la Promozione, a veder giocare squadre composte da giocatori che in molti casi ottengono solamente il rimborso spese della benzina e un buono pasto a partita dando comunque l’anima e il corpo in ogni singolo incontro con centinaia di ultras sugli spalti è la vera essenza di una tradizione che è destinata ad estinguersi.