SAPORITO!

Diario di viaggio di una fuga al mare sul gong dell’anno

Alla fine dopo pranzo finisci sempre per scrollare Instagram senza manco rendertene conto. Se, come mi era capitato, hai la febbre che ti rinchiude in casa, rendertene conto non basta neppure: ci ricaschi di continuo. Se, come mi era capitato, oltre alla febbre hai la nausea, allora rendertene conto non ti disturba nemmeno: lo stomaco ce l’hai già in subbuglio per l’odore aspro del mandarino che ha mangiato tuo padre, lasciandoti libero dal somatizzare il senso di colpa.

Ma, a fine anno, c’è sempre un altro fuoco amico a fare breccia nel mio stomaco mentre mi impegna l’ozio sui social: la malinconia che mi trasmettono i recap di fine anno nelle vostre storie.

Così, al 30 di dicembre, con la nausea che iniziava a scomparire lasciando legna a nuove fiamme, io, per salvarmi, ho dovuto. Soluzioni meno drastiche mi parevano un’inutile perdita di tempo. Quindi, dopo dieci giorni di Salento solo assaggiato dalla finestra di casa, finalmente l’ho fatto: ho anticipato la puntuale immersione postprandiale sui social e, per non cascarci, sono scappato al mare.

Ho sentito un paio di amici: uno aveva da studiare, l’altro da cucinare i purciddhruzzi. Ho chiesto alle mie sorelle: niente da fare. Poi ho pensato che alla fine, al mare, si sta bene anche da soli. Allora ho preso la reflex, giusto perché non si sa mai, e mi sono infilato in macchina senza ancora sapere quale esatto anfratto di costa raggiungere.

Non mi andavano i granelli fastidiosi della spiaggia, non mi andava il mare chiuso del porto, non mi andavano gli scogli con cui le onde fanno le scorbutiche alla Strea. Cos’è che mi andasse non lo capivo: il mare mi piaceva sempre tutto e mo’ mi ero messo a farne il sommelier? Forse era colpa degli ultimi rimasugli di nausea o forse…

Mi ero imbucato per una strada che avevo battuto molto poco e solo in bici: un nome vero ce lo aveva, ma avevo imparato che le strade di campagna non si arrabbiavano se li ribattezzavi a tuo piacere; anzi, per loro quasi era motivo di vanto averne mille per ognuno che ci passava: per me, quella, era la strada delle masserie. Di strada della masseria chissà quante ce n’erano, ma, per mia esperienza, quelle delle masserie (al plurale) scarseggiavano ed è questo che per me la rendeva speciale: percorrendola, tra casa mia e il mare, se ne incrociavano ben quattro. Allora era chiaro di quale mare avessi voglia: quel giorno, io, volevo il mare mio, quello che nasce dalla terra rossa.

L’esperienza doveva essere bucolica, e doveva esserlo in tutto e per tutto: l’unico elemento antropico a cui avevo concesso la deroga era la mia automobile, dal cui stereo un po’ Battiato, un po’ Battisti, un po’ Dalla, mi tenevano compagnia.

Poi, una volta immerso in tutto ciò che non era più villaggio o case, m’è successo che tutti gli altri miei sensi si ritirassero, come rinsecchiti, svuotati dal più stimolato e imprevisto di loro: il gusto.

La luce orizzontale delle 4 del pomeriggio riflessa e assorbita dai prati, dalle serre e dagli ormai rari ulivi infatti, era saporita: come il sugo della nonna, non saprei dirlo meglio. E poi, anche andare in macchina a 40 all’ora e scansare le buche dell’asfalto di campagna era saporito. Gli stormi infiniti che, dondolando sul mio cielo, mi indicavano la più ebbra delle rette vie erano saporiti. Alla fine, vedere il sole che m’inseguiva sempre più rosso raggiungere a poco a poco il mare, che sbucava sull’orizzonte, un pezzo per volta, era saporitissimo! Attendere il mare per me è sempre tutto sommato facile; riabbracciarlo, invece – e non me lo spiego – è di un disarmante…

Per cui ho posato tutto ciò con cui mi armeggiavo: la mia auto e la vecchia musica italiana. Sono sceso e dall’ultimo colle ho scorto il sole scendere sul mare, ancora un poco lontano ma finalmente visibile, nella sua grandezza, fino alle montagne in ombra della Calabria, con le quali mi ridestavo sulla profondità dell’orizzonte. Sembravano elefanti bianchi, quasi come in un racconto di Hemingway.

Poi, un ultimo regalo: dal dirupo, a pochi metri da me, un fruscio. In una lenta reattività da post-degenza, nel voltarmi, una bestia di un folto rossissimo si arrampicava tra gli olivastri, i ginepri e qualche bisbetico cisto. Pareva una volpe, ma io ero abituato a vederle più piccole e meno pelose, più rachitiche e meno agili. Da lì però partiva la foresta di Porto Selvaggio: essere abituato a quelle campagne, oltre quel confine, valeva ben poco.

Il saporitissimo piatto davanti ai miei occhi. Illustrazione di Aurora Tassoni.

Era scomparsa troppo in fretta e tornando verso casa mi distraeva il pensiero di capire che diavolo di bestia fosse. Perchè ero eccitato d’adrenalina? Ero stato senza saperlo osservato per minuti da una nascosta bestia bellicosa o era solo un’impaurita fuggitiva? Mi eccitava la possibilità di una nuova scoperta o prevaleva la paura di deludermi con qualcosa che conoscevo da sempre? I sentimenti li avevo e non li potevo capire. Ma – predarmi – m’aveva predato comunque.

Sulla strada, infatti, le distrazioni si evolvevano e tutto ciò che guardavo dal finestrino mi portava un tenero ricordo: prima le volpi che abitavano di fianco casa mia quando ero un bambino, poi la spiaggia e il brindisi di un vecchio Capodanno, i tramonti che avevo fotografato, le arance che avevo rubato e le corse in bici che avevo fatto, i cani da cui ero scappato, le masserie abbandonate che prima avevo scoperto e poi fatto scoprire, le estati accampati in qualche timida tenda, col vino e qualcuno che ballava sulle stesse note del mio stereo, i posti affollati della mia gente e quelli nascosti che chissà se li conoscevo solo io. Sullo sfondo, una febbre che da Santo Stefano mi aveva catapultato su un Capodanno che spalancava la fine delle ferie natalizie, l’inizio della sessione e un vicino nuovo addio a tutto quello.

In poche parole, ero affondato nella stessa malinconia da cui volevo scappare: perché non è colpa dei vostri recap nelle storie, ma di questa tenerezza che il passato per me eternamente si appiccica addosso.

A volte vorrei essere come una bestia di Porto Selvaggio: capace di vedere, spaventarsi, scappare e poi già aver dimenticato. Poi, mi ricordo che così niente sarebbe saporito.

Uno si illude che il sapore sia una questione istantanea, che nasce e muore con un morso; io da un po’ penso che il sapore non si possa apprezzare se non nel tempo e nella tenerezza malinconica dei ricordi: chissà se il mio morso è gustoso se non so confrontarlo col sapore di quelli passati?

Allo stesso tempo, però, sarebbe tutto più facile se io non mi ricordassi ancora adesso quanto cazzo fossero saporiti gli gnocchi che faceva mia nonna.

Mentre mi riprendevo dalla sbornia della malinconia, già mi rendevo conto di aver creato un nuovo tenero ricordo per il futuro: quello di quella giornata. Non era vero, allora, che questa terra per me fosse solo passato e ricordo. Quello, semmai, era solo il mio modo di assaporarla.

Dallo stereo, le ultime note faticavano ad emergere oltre i pezzi di vetro della mia voce che malamente le anticipavano: “Sa-ppore di saleeee, sa-ppore di mare”; non c’avevo mai capito nulla di musica, se non che è un possente scirocco in cui poter diventare polline per lasciarsi sbattere da qualche parte a germogliare.

Possibilmente, in mezzo al sale.

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