Recensione di “V13” di Emmanuel Carrére

Paura. Dolore. Sangue. Morte.

Parigi. Una notte apparentemente come le altre. La vita nella capitale francese scorre col suo solito ritmo, frenetico ma al contempo elegante. Famiglie a passeggio, amici che si riuniscono per passare la serata insieme, coppie alle prime armi che si innamorano.

Questa però non è una notte come le altre, ma è la notte del 13 novembre 2015. La notte in cui la storia di un Paese cambierà per sempre.

130 le vittime. Più di 400 i feriti. Famiglie devastate, vite che non saranno più le stesse.

Il Continente intero osserva in silenzio e si stringe attorno a una delle tragedie più grandi di questo secolo.

Certe ferite non possono essere curate, certe cicatrici rimarranno impresse nel tempo, e nessuno potrà cambiare quello che è successo quella notte.

Ma se anche nulla di tutto questo potrà mai essere considerato giusto, il compito di uno Stato rimane quello di fare giustizia. Ed il modo migliore per fare giustizia, nel rispetto dei diritti e delle garanzie fondamentali degli individui – vittime e carnefici – è di farla nel contesto di un processo, davanti a un giudice che, dopo aver sentito tutte le parti in causa, darà una lettura “giusta” – per quanto possibile – di questa storia.

Ed è proprio di uno dei processi più importanti degli ultimi decenni che ci parla Emmanuel Carrère, incredibile scrittore, sceneggiatore e regista nato e cresciuto a Parigi.

Rielaborando i vari articoli dal medesimo scritti durante tutto lo svolgimento del processo, questo autore dalla penna brillante propone un libro che riporta, fase dopo fase, tutto ciò che vi è successo. Quasi dieci mesi di testimonianze, interrogatori, arringhe, silenzi, lacrime, le storie delle vittime raccontate dalle stesse o da chi gli è sopravvissuto, le spiegazioni ingenue e innocue degli imputati, il clima di desolazione, di frustrazione e, alle volte, di incomprensibile ironia.

La narrazione, rigorosamente in prima persona in quanto testimonianza di chi, tutti i giorni, ha fatto la scelta di assistere a quello che potremmo, impropriamente, definire uno spettacolo surreale, è suddivisa in tre grandi blocchi: le vittime, gli imputati, la corte.

Seguendo l’ordine legale di svolgimento del processo, secondo la legge procedurale francese, Carrère riporta prima di tutto le testimonianze delle parti civili – giuridicamente definiti come i danneggiati del reato (vittime del reato) che decidono di esercitare nel processo penale l’azione civile tendente a ottenere il risarcimento del danno.

Sono settimane di testimonianze strazianti, di persone rimaste segnate per sempre da quello che hanno vissuto quella notte, tanto i sopravvissuti quanto i loro parenti e amici.

La cosa che maggiormente sorprende di questa prima parte del racconto è la capacità dell’autore di riportare tanta sofferenza e tanto dolore senza però mai sfociare nel patetico, raccontando i particolari, anche i più cruenti e difficili da digerire, senza mai far apparire le vittime come vittime, bensì facendo trasparire il coraggio e la forza di tutte quelli che, disgraziatamente, sono stati toccati dalla tragedia.

La scelta dei termini giusti al momento giusto, una punteggiatura che permette di percepire il ritmo secondo il quale si sono susseguiti i racconti, la giusta alternanza di descrizioni materiali e di riflessioni personali, permettono di immedesimarsi con chi riporta la propria storia e la propria visione di quanto accaduto, facendoci empatizzare con loro e vivendo la tragedia attraverso le loro parole.

Ma da un punto di vista strettamente personale, è nella seconda parte, cioè quella dedicata alla storia e alle parole degli imputati, che Carrère fa la sua magia.

Ci parla di un imputato alla volta, indicando che ruolo ha avuto nella grande macchina del terrore e in che percentuale abbia effettivamente contribuito alla realizzazione degli attentati.

Riporta le loro risposte ed i loro silenzi durante gli interrogatori, la sfacciataggine di quelli che rimangono convinti di aver agito nel giusto e la disperazione di chi, al contrario, sostiene di esserci finito in mezzo per caso, inconsapevolmente.

La cosa che più mi ha colpito di questa parte del libro è che l’autore, così come nella sezione precedente ha fatto con le vittime, riesce a far immedesimare il lettore anche nei carnefici, rendendo quasi plausibili le ragioni e le giustificazioni di quelli che, prima di leggere questo libro, chiunque considererebbe dei perfidi assassini, dei sanguinari privi di senno che meritano di essere puniti per quello che hanno fatto.

Più volte, mentre leggevo, mi sono accorta di percepire una latente umanità nelle parole di chi, con autentica semplicità, descrive le proprie scelte e le proprie azioni come parte di un disegno più grande, che altro non è se non un ripagare con la stessa moneta un Paese che, ai loro occhi, ha fatto di peggio in passato.

La capacità di questo libro è quella di ampliare il campo visivo, quasi come fosse un’immagine che, di colpo, smettiamo di zoomare, vedendone dei margini che prima non potevamo vedere, troppo concentrati come eravamo sull’immagine a fuoco.

Nessuna azione che porti a tanto dolore e morte potrà mai essere giustificata, ed è giusto che ognuno paghi per le proprie colpe. Ma è anche giusto analizzare attentamente le motivazioni per cui un gruppo di giovani uomini, ognuno con le proprie vite dalle poche pretese e già ricche di problemi, decida di mettere in scena questo spettacolo del terrore. È giusto approfondire il contesto storico e geografico che ha portato a questa scelta scellerata, conoscere gli avvenimenti del passato che hanno lasciato un segno altrettanto indelebile nella vita di un altro gruppo di persone, fatti che a noi forse non sono neanche mai arrivati. È giusto vedere l’immagine per intero, perché solo quando si ha una visione di insieme si può provare a dare una spiegazione a ciò che è successo e si può lavorare per fare in modo che non succeda più.

Come sostiene lo stesso Carrère: “Il processo che si apre oggi non sarà, come alle volte si dice, la Norimberga del terrorismo: a Norimberga gli imputati erano alti dignitari nazisti, qui sono figure di secondo piano, dato che quelli che hanno ucciso sono morti”.

Tra i vari soggetti che passa in rassegna, il focus non può che essere sull’imputato per eccellenza, Salah Abdeslam, l’unico che quella notte si sarebbe dovuto far saltare in aria con tutti gli altri. Non ha potuto o non ha voluto?

L’analisi di questo personaggio tanto complesso è forse una delle parti che più mi ha colpita di questo libro, che ci parla di un uomo che, con estrema semplicità, espone le sue ragioni, alle volte quasi burlandosi del pubblico che lo ascolta, suscitando fastidio in questo tanto quanto nel lettore, ma al contempo un disperato sentimento di sapere quale sia la verità, cosa sia passato per davvero per la sua testa quella notte, cosa l’abbia portato a essere un imputato e non più un martire.

Questo è un libro che ci fa riflettere sul fatto che tutti hanno il diritto ad essere ascoltati, capiti, difesi. Questo è un pensiero che, nel momento in cui succedono eventi tanto impressionanti e incisivi, facciamo fatica a capire. Siamo esseri umani, la nostra indole diventa irrazionale quando si gioca col dolore, ci lasciamo sopraffare dalle emozioni, e questo zoom non lo riusciamo a togliere.

Ed è anche questo il ruolo del diritto, riportare razionalità laddove il senno si è ormai perso, proteggere chi nessuno riterrebbe più degno di essere difeso.

L’autore descrive gli avvocati della difesa come degli eroi, dei maestri dell’arte oratoria che riescono a insinuare il dubbio nelle orecchie di chi ascolta, cercando disperatamente di rispolverare quel poco di umanità che si cela nell’anima degli imputati e di far sbiadire l’onta di criminali che li veste come una tunica con un prete.

Scrive Carrere: “Difendere le vittime è nobile, bisogna farlo, ma la causa è vinta in partenza. Difendere dei presunti terroristi è un altro paio di maniche […]. La maggior parte delle vittime con cui parlo stima gli avvocati degli imputati. Ritiene importante che siano bravi”.

Ed è qui che il lettore si rende conto che non è così sbagliato provare pietà per gli imputati, che il vero scopo di un processo come questo non è condannare alla pubblica gogna un gruppo di persone la cui vita è già rovinata, ma quello di trovare la profonda verità nelle cose, nel rispetto dell’essenza nobile del diritto, che non si lascia mai travolgere dall’irrazionalità umana e che preserva la sua bellissima obiettività.

Questo libro, oltre a riportare minuziosamente e rendere davvero aperto al pubblico un processo tanto importante e dibattuto, ci permette di avere un approccio differente alla verità. Ci fa vivere il dolore delle vittime ma anche quello degli imputati. Ci fa arrabbiare con gli “assassini”, ma anche con tutti quelli che avrebbero potuto gestire meglio una situazione ben più remota e antica.

Aveva ragione Carrère quando diceva: “Un giorno dopo l’altro, ascolteremo esperienze estreme di morte e di vita, e penso che, fra il momento in cui entreremo in quell’aula di tribunale e quello in cui ne usciremo, qualcosa in noi tutti sarà cambiato.”.

Chiunque leggerà questo libro entrerà realmente in quell’aula di tribunale e, per quanto mi riguarda, qualcosa in me è cambiato per davvero.

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