L’altro giorno sono stato ad una manifestazione: causa giusta, soliti amici anche qualche volto nuovo. Nuovo un po’ spaesato; ma nuovo. Bandiere che sventolano, cori che scandiscono un ritmo rituale, il solito percorso; quasi confortante. Eppure,nell’aria si respira un sentimento mesto. Nel guardarmi intorno vedo persone arrabbiate, come dargli torto, deluse, come dargli torto, sconnesse: strano. La sensazione di essere isolati, ognuno con sé tutti verso un fine. Manca il riconoscersi.
Lungi da me universalizzare e gramellinizzare esperienze personali frutto anche, se non soprattutto, dell’afflato alcolico che solo la Peroni da sessantasei centilitri sa regalare. Tuttavia, era già da un po’ che questa sensazione di estraneità faceva comparsa nelle mie giornate. La si intravede nei volti svuotati dei commessi e dei baristi, nella camminata sostenuta di chi cerca il percorso più rapido per arrivare da punto A (casa) a punto B (lavoro) e viceversa. La senti nell’imbarazzo che ti pervade quando incroci lo sguardo di uno sconosciuto sul bus, troppo a lungo, guardifuori.
Essere un po’ involuti, rivolti verso il se, è chiaramente la caratteristica della secolarizzazione capitalista, nulla di nuovo. La solita bizzarra imposizione dietro al “diventa quello che sei”, che sembra dire: cerca la tua unicità all’interno di te! Come se l’interiorità fosse un luogo avulso da avvenimenti, dolori e sensazioni proprie del mondo che ci circonda.
Ciò di cui si parla qui non è alienazione, quella è inevitabile nell’epoca dello spezzatino di io da servire al tavolo della rete, ciòche mi pare si stia affievolendo è la scintilla, il clic dell’accendino prima della fiammella, il momento in cui guardandoci reciprocamente ci riconosciamo prima come individui che come portatori di interessi. Un passaggio fondamentale per creare legami che vadano oltre il semplice mutuo supporto nello spingere il mondo nel suo ininterrotto flusso produttivo.
Il coinquilino è quello con cui mi divido un affitto inaffrontabile da solo, il collega quello che mi passa gli ultimi moduli da compilare, il manifestante quello con cui ci attiviamo verso un comune fine sociale. Solo questo? Mezzi-Fini, risorse-scopi, cosa c’è nel trattino? C’è mai stato qualcosa nel mezzo? Come ci si guarda davvero?
Grande è la confusione sotto al cielo: ci si capisce poco, anche tra simili. L’idea che la sopravvivenza stia pian paino soppiantando l’esistenza anche negli orizzonti più consumisticamente sviluppati del mondo è preoccupante. Declinare il privilegio non verso l’empatia ma verso l’accumulo, checché ne dicano corsi di self improvement e fuffa guru, è un errore che non ci possiamo permettere.
In un mondo in cui ogni attimo della vita di tutti i giorni diventaatomo di un’immensa catena di montaggio, in cui ogni gesto viene isolato in nome di un inesorabile produttività, in cui il sentirsi algidamente soli anche in mezzo alle moltitudini è divenuta prassi, prendersi un attimo per guardarsi negli occhi, immaginare l’altro, sentirlo vicino a se risulta un imprescindibile atto di rivoluzione, per spezzare il circolo e volgersi ai problemi del mondo con occhipieni, attenti, nuovi.
una prima fondamentale sfida verso eventi e ingiustizie che paiono inesorabili e giganteschi risiede nel guardare l’altro, la sua gioia, la sua sofferenza e intravedervi la propria. Guardarsi e riconoscersi, rima come uomini poi come individui.