Arte e umanità: un epilogo comune

Che ne sarà di questo quadro, di questo libro, di questa scultura? Qualcosa della sua essenza mi appartiene? E se le nostre sorti fossero intrecciate in maniera inscindibile?

Mia nonna era una tuttofare. In vecchiaia sembrava aver accumulato un ritardo immenso. Le sue mani erano costantemente impiegate in attività di vario genere: sferruzzare, pitturare, impastare, martellare. Vorrei fare qualcosa che rimanga soleva ripetere a una minuscola me che ancora non aveva percezione della fugacità del tempo, ma già temeva la venuta dell’Ombra. C’è tanto da fare prima che muoia. Questo fatto proprio non l’accettavo. Non accettavo la fine. Ancora oggi fatico a concepire la sua ineludibilità.


Il soffio dell’artista o un cumulo di macerie?


Una manciata di paesaggi e icone bizantine se ne sta appesa silente sulle mura di casa. Un’esile firma rammenta l’identità dell’artista. Mi immergo nelle sfumature di colore e non mi basta, non mi basta perché la stragrande maggioranza dei quadri di nonna sulle poche pareti disponibili un posticino non lo trova, e dunque sopravvive in punizione perenne, imballata e in esilio in angoli reconditi.

Quest’arte orfana ha smesso di esistere. Potrà risorgere quando una vita umana si degnerà di ricambiarne lo sguardo. Fino a quel momento, altro non sarà se non maceria.

Qualcosa rimane del soffio dell’artista: l’interpretazione di un vissuto, un pensiero fugace, un’emozione genuina. L’immateriale trasmesso dalla materia a favore della vita. Un’opera è figlia e in quanto tale conserva la genetica dell’autore e indirizza le sorti della progenie.

La permanenza del “qualcosa”

Molta dell’arte esistente soccombe a una concatenazione di cause avverse, un groviglio di variabili che impedisce il pieno sviluppo del suo potenziale. Gli spazi pubblici e privati mal gestiti; i fondi collettivi dileguati; i vincoli burocratici insensati; il tempo strappato alla contemplazione e alla creazione dall’obbligo imperativo della produttività.

Infrastrutture abbandonate al degrado marciscono nell’esile aspettativa di una rinascita, sognando di tramutarsi in gallerie espositive: qual vana aspirazione… Intanto, opere architettoniche di gran pregio si frantumano nell’indifferenza generale.

A che scopo dunque rimane questo qualcosa, quest’opera ingegnosa che a ciascuno di noi potrebbe confidare un segreto speciale? Ne riceviamo solo indizi, brandelli sconclusionati perché lo sguardo d’insieme s’è perduto.

Una parte dell’arte sopravvissuta, integrata in un’élite protettiva, si limita a sussurrare arcani sfuggenti a un pubblico tanto più sordo e ozioso quanto le sue disponibilità economiche gli concedono di essere.

La nostra permanenza in vita è un’equazione dalle innumerabili incognite e dalle infinite soluzioni.

Passeggiamo sul filo tagliente d’una pagina screpolata. I tratti dei nostri muscoli pulsanti sono intrappolati in figure marmoree. Le nostre gesta compongono tele titaniche. La genialità umana si erge in costruzioni mozzafiato. Le macchinazioni di menti eccelse sviluppano creazioni sbalorditive.

L’entità complessa del nostro corpo perirà nell’arco di decenni. Eppure quella scintilla, quel nucleo, fondamento della nostra spiccata e inimitabile personalità, l’essenza intangibile, incorporea e spirituale, elemento determinante dell’Io, s’insinua nelle opere creative diventando tangibile, corporea, fisica.

Il soffio umano non svanisce: trova nuova dimora nei capolavori artistici.

È sufficiente storpiare di poco una battuta ben nota per fissare il concetto:

Nessuno dei due può vivere se l’altro soccombe.

Non c’è arte senza umanità. E non ci sarà più umanità se l’arte scivola nell’oblio.

La memoria collettiva ha scelto il proprio rifugio, l’horcrux quale garanzia di immortalità.

L’epilogo comune

L’umanità contemporanea si compiace dei capolavori passati, si accontenta delle opere maestre, accettando le interpretazioni universalmente riconosciute. Non si fa più affidamento all’ingegno e alla creatività per decrittare messaggi sconosciuti. Tanto meno si ricercano le storie perdute nei meandri della storia…

L’arte rappresenta il nostro vissuto: un’epopea incalcolabile di mirabolanti imprese trova espressione sublime in idiomi capaci di sfasciare perfino i confini linguistici frutto della confusione di Babele.  

Se però l’investigazione umana s’interrompe alla sola apparenza, l’incantesimo si dissolve e la memoria svanisce, perché l’arte smette di essere linguaggio dei tempi che furono.

La bellezza diventa puro godimento edonistico, un’emozione sincera e focosa che smette però di indagare, non compiendo il passo successivo.

Almeno in parte, l’essere umano è per natura egoista. Tuttavia, a voler godere dell’immortalità non è meramente l’Io egocentrico: ancora più insito in noi è l’istinto di sopravvivenza.

Procreare significa strappare dolorosamente una parte del sé per donarla alla comunità prossima. Procreare significa sacrificare la propria giovinezza per il fine ultimo della conservazione della specie.

Quel qualcosa che rimane è sangue e dolore e lacrime, ma anche gioia e stupore e la meraviglia di milioni di predecessori che hanno calpestato queste terre e che qualcosa, nel complesso di una storia univoca quale quella che ci vede protagonisti, devono pur averlo capito.

Ma se zittiamo il passato nelle sue forme più sublimi, e se fatichiamo a rigenerare l’arte e a percepirne l’essenza, quante storie ancora potranno compiersi?

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