Censura contemporanea e il caso Rafah
Il recentissimo trend “All eyes on Rafah” ha spezzato le catene dell’algoritmo (e della censura) di Instagram ed è andato anche oltre al vincolo imposto sulla divulgazione dei contenuti di natura politica. La diffusione su larga scala (le condivisioni si avvicinano alle 50 milioni di unità) è potuta avvenire per due ragioni.
La prima è di natura strettamente tecnica: la foto è stata creata dall’idea di un fotografo malese per mezzo dell’intelligenza artificiale; essa raffigura un raggruppamento tale di tendopoli da comporre la suddetta scritta. L’immagine è stata poi proposta come trend e il social network non ha dunque reagito per rallentarne l’espansione.
In secondo luogo, la foto è appunto fasulla (al bando pure i fumettisti): volge l’obiettivo su una questione umanitaria urgente, ma lo fa in maniera piuttosto sterile. Sarebbe più appropriato dare visibilità alle immagini reali che circolano quotidianamente sotto il nostro sguardo. Tuttavia, dal fronte scorrono fotogrammi strazianti, orripilanti, e parte dell’uditorio in effetti prova malessere fisico nel vederle, fosse solo per un istante.
La brutalità del genocidio richiede un nostro intervento più deciso e gli slogan asettici potrebbero non bastare. Nuovi trend si accavallano sull’onda del primo – sfruttando la momentanea confusione dei meccanismi social – e pur basandosi spesso su immagini finte, la denuncia è veritiera e attualmente risulta essere la maniera più efficace di divulgazione su larga scala.
La cittadinanza è un dovere
Malauguratamente, a molti di noi la politica interessa ben poco: rientra in quella classe di argomenti soporiferi e distanti dalla nostra sfera sociale quotidiana. Il problema è più grave e pericoloso di quanto possa apparire e va dunque affrontato.
La politica non è una questione astratta: è lo strumento che ci consente di essere cittadini affermati e – secondo il pensiero di Aristotele – esseri umani compiuti.
L’articolo 4 della nostra Costituzione recita:
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Qui è sottolineata l’importanza del ruolo individuale che concorre al progresso della comunità nel suo insieme. È un diritto, un’aspirazione, un dovere.
È un dovere perché gli attuali diritti di cui beneficiamo sono il risultato di una lotta ancestrale.
Ai tempi in cui i diritti non erano previsti
“Giovanni Re fasullo d’Inghilteeerraaa” come non unirsi al coro di sdegno del popolo di Nottingham e della banda di Robin Hood, nel classico firmato Disney… Quello stesso Re poco simpatico a cui i baroni hanno strappato nel 1215 il documento oggi considerato come la prima costituzione europea: la Magna Carta. Dopo anni di opprimente tassazione, sotto la minaccia di una guerra civile, King John è stato costretto a negoziare la sua tirannia e siglare qualche concessione al popolo inglese.
Lo scontro non fu comunque evitato e la Carta si considerò inizialmente un insuccesso. A distanza di tempo però, la sua unicità in termini di lunghezza e dettaglio permisero di consacrarla a fondamento dei diritti umani universali.
Nei secoli successivi si svilupparono nuovi trattati che tentavano di ridimensionare la figura divina di Re e Monarchi, concedendo sempre più spazio al popolo in Parlamento. Ne sono esempi: Il Patto del Popolo del 1650 (badate bene quanti anni sono passati), successivo alla Guerra Civile Inglese; la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776 (ancora un secolo); la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, frutto della Rivoluzione Francese fino alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (UDHR) del 1948.
Oltre sette secoli in tutto. E possiamo dire di avercela fatta?
Sudditanza contemporanea
Ci è voluto parecchio affinché la schiavitù scomparisse dalla faccia della terra: negli Stati Uniti (The American Dream) è durata fino alla seconda metà del XIX secolo, prima della Guerra di Secessione. Attenzione però: è più corretto affermare che sia la schiavitù giuridica ad essere stata abolita.
L’articolo 4 della UDHR recita:
Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù...
Possibile però che esistano forme moderne di sudditanza, non più delineabili con la chiarezza di un tempo?
L’articolo 600 del Codice Penale prevede tutt’oggi una sezione dedicata ai delitti contro la personalità individuale, nello specifico:
“…chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio… è punito con la reclusione da otto a venti anni…”
E se fossero i vincoli operativi stessi imposti dall’apparato sociale a renderci più simili a sudditi che non a cittadini?
I diritti fanno parte di un contratto
È rincuorante accarezzare il palato con la parola diritti. Eppure nei nostri discorsi non trova uno spazio definito il polo diametralmente opposto, senza il quale tali diritti vacillano. Sulla carta esso è ben specificato, ma i dibattiti sembra lo occultino volutamente. Un aspetto sfuggente ma imprescindibile.
Articolo 29 della UDHR:
Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità.
La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, se non approfondita, non ci porta a riflettere sui nostri doveri.
Il concetto di cittadinanza si è sviluppato in quanto bilanciamento tra diritti e doveri fin dall’epoca degli antichi greci e romani.
Essere cittadino e beneficiare dei diritti che ne derivano implica una risposta attiva, un carico di obblighi e doveri di ritorno alla comunità.
I governi si rivolgono spesso a noi chiamandoci consumatori, ossia fruitori passivi impigriti dai vizi e dagli eccessi del consumismo.
Un fruitore è una vittima passiva, rappresentata e servita, un beneficiario e consumatore dell’epoca capitalista. Un animale economico.
Un cittadino dovrebbe essere un partecipante attivo, responsabile e creativo, agente di cambiamento e destinatario dei diritti umani universali. Un cittadino non subisce i cambiamenti in uno stato di impotenza, ma partecipa al loro sviluppo, indirizzandone la destinazione. L’animale sociale che ci vantiamo di essere.
Lo stato di consumatore è pericoloso perché crea una modifica unilaterale del contratto, per la quale non ci viene richiesto alcun intervento, e che causa la graduale trasformazione degli individui in schiavi moderni. L’apatia e la non curanza nei confronti dei doveri implica una regressione del popolo a quei tempi antichi in cui i diritti non erano garantiti. Un popolo disincantato, disimpegnato, distaccato, disinteressato. Un popolo stanco perché vittima di un sistema opprimente; stanco pur non avendo agito attivamente per cambiarlo. Rousseau in persona nella sua opera “Il contratto sociale” si interrogava sulla posizione del cittadino chiedendosi cosa quest’ultimo fosse disposto a fare di ritorno al proprio Stato.
Le tristi somme
La schiavitù non nega necessariamente i diritti, non tutti almeno. Il diritto di voto è forse l’esempio più lampante di cittadinanza attiva. Per il resto però, scarseggiano le battaglie quotidiane, quelle fuori dalle urne. La votazione dovrebbe rappresentare niente altro se non il culmine di un attivismo frequente, costante e impegnato.
La cosa più dolorosa in tutto questo, è il disonore gettato sui milioni di antenati che hanno lottato per davvero, consegnandoci le comodità e le garanzie dell’età contemporanea. La passività è un pugno alla loro memoria. Una svalutazione del loro operato. La passività è il totale disinteresse verso le nostre stesse sorti. Buffo, tutti gli esseri viventi agiscono con lo scopo primario di perpetuazione della specie. Non l’essere umano.
È mio dovere essere cittadino. Come mia è la scelta. Sta a noi.
Per un approfondimento sulla visione suddito / cittadino nonché sulla questione del reddito di base universale, suggerisco l’illuminante Ted Talk di Raf Manji.