NEET: giovani senza meta

Il termine “NEET” è un acronimo che sta per “Not in Education, Employment, or Training” (Non in istruzione, occupazione o formazione), facciamo riferimento quindi a tutti quei giovani che non frequentano scuole o università, non lavorano e non sono impegnati in nessuna attività di formazione professionale (es. stage).

Il dato

2021:

  • 13% Giovani europei tra i 15 e i 29 anni
  • 23% Giovani Italia

Oggi nel vecchio continente:

  • 11% Giovani europei

Oggi in Italia:

  • 25% fascia 25/29 anni
  • 21,5 fascia 20/24 anni
  • 10% fascia 15/19 anni

Per un totale di 1,67 mln.

L’analisi

Lo Stato riconosce questa categoria e pone in atto dei programmi di intervento allo scopo di combattere il fenomeno: un esempio ne è l’incentivo economico riconosciuto ai datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato soggetti “NEET” nel periodo 1° giugno – 31 dicembre 2023 posto in essere dall’INPS.

Il punto focale è dato dalla varietà di categorie di persone che vivono questa fattispecie, leggendo la definizione di Neet viene spontaneo pensare che questi soggetti siano nullafacenti, disoccupati cronici che, non essendo in grado di voler o poter imparare un mestiere preferiscono vivere sulle spalle degli altri, una sorta di parassiti sociali. Specie in riferimento ai giovani dovremmo quindi pensare che questa sia la classica ‘’gioventù bruciata’’, termine nazionalpopolare utilizzato da persone adulte come forma di disprezzo nei confronti dei più giovani.

In realtà una corretta analisi del fenomeno ci permette di capire come nella categoria dei Neet rientrano tante persone, provenienti da contesti e da storie differenti.

Tra le cause che possono portare a questo problema abbiamo in primis la dispersione scolastica, quindi ragazzi che – probabilmente senza una famiglia alle spalle o comunque in un contesto dominato dall’ignoranza – preferiscono terminare gli studi e vivere in famiglia.

D’altro canto, in un contesto diametralmente opposto a questo, possiamo far rientrare nella categoria dei Neet anche quei giovani troppo qualificati: ragazzi tra i 23 e i 29 anni laureati per lo più in materie umanistiche o artistiche che, data l’offerta del mercato spesso ridotta rispetto al numero di professionisti, non riescono a trovare sbocco nel campo delle loro competenze.

Fondamentali sono le problematiche piscologiche, sacrificarsi tanto e non veder ripagati i propri sforzi, ricercare un posto nel mondo con la paura di non riuscire a canalizzarsi in nessun settore. Tale insoddisfazione può portare a sentimenti di odio, rancore nei confronti della società, nei confronti di chi invece riesce a percorrere un percorso lavorativo/universitario netto, senza esitazioni.

Ma perché viviamo la dispersione scolastica?

Prevalentemente, ciò avviene per:

  • Disoccupazione;
  • Esclusione sociale e povertà;
  • Difficoltà nell’apprendimento;
  • Risposta dello studente al sistema scolastico che ha frequentato.

In media, ad abbandonare la scuola sono soggetti di un’età pari a 16 anni, coincidente con appena cessato l’obbligo scolastico per legge.

Una domanda, provocatoria, sorge spontanea: se vi è disoccupazione e povertà, a questo punto – in luce a decreto Caivano – ha senso mandare in carcere genitori che non mandano i figli a scuola per due anni? Com’è scritto quel decreto? È sufficientemente dettagliato per evitare reclusioni frettolose?

Come potremmo combattere la dispersione scolastica?

  • Orientamento: particolare attenzione nel passare dalla scuola di primo grado a quella di secondo. Lo studente va accompagnato passo dopo passo, coinvolgendo la famiglia e le scuole territoriali con iniziative chiarificatrici (es: sportelli appositi per genitori e ragazzi);
  • Comprendere le attitudini del ragazzo e orientarlo verso un potenziamento delle stesse (si nota essere bravo in disegno? Ottimo indirizzarlo verso un liceo artistico anziché un classico) e illustrandone le offerte lavorative attinenti alle sue passioni;
  • Costruzione di presidi scolastici nei luoghi più depravati (es: università medicina a scampia);
  • Focus sul “fuori scuola”: la scuola non può rispondere a tutti ma è necessario che vi sia una tutela multilivello tra pubblico e privato, tra scuola ed educatori, mediatori culturali, assistenti sociali, psicologi;
  • Rapporto costante tra scuola, asl e servizi sociali;
  • Rivedere progetti PON, facilitando la cooperazione con il terzo settore.

Con riferimento ai NEET:

Come risposta è stato pensato il Fondo per la Repubblica Digitale, per 2022-2026, con 350mln di euro avrà l’obiettivo di accrescere le competenze digitali, unendo lo sviluppo di transizione digitale del paese con l’offrire una formazione in tale materia a chi non ne dispone.

Germania e Paesi Bassi sono i migliori nella transizione scuola-lavoro: nella prima sono NEET solo il 10%, nella seconda il 4,6% (Italia quasi 26)

  • Si opta, per l’Italia, verso un sistema scolastico decentrato, con innovazione dei programmi scolastici e confronto verso aziende. Come dimostrano Paesi Bassi e Inghilterra, con un sistema decentralizzato, si ha un numero NEET inferiore e 2/3 delle decisioni in tema scolastico lo prendono le scuole, anziché Ministero e delegazioni varie à vicinanza territoriale con decentramento.

Aldo Maria Cupello e Pasquale Spatola

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