È noto che molte multinazionali del settore abbigliamento, al fine di contenere i costi di produzione per raggiungere una sempre maggiore competitività sul mercato, delocalizzano gli stabilimenti di produzione in Stati prevalentemente situati in aree in via di sviluppo dove i diritti e le garanzie riservati ai lavoratori o non esistono o sono molto inferiori a quelli assicurati nei paesi più sviluppati.
I lavoratori operano infatti in edifici spesso non messi in sicurezza: ricordiamo, ad esempio, la tragedia avvenuta il 24 aprile 2013 a Savar, in Bangladesh, quando crollò il palazzo Rana Plaza, sede di multinazionali come H&M, Zara e Primark ed in cui persero la vita 1129 persone e ne rimasero ferite circa 2515.
In seguito a tale avvenimento, si giunse alla firma dell’Accordo per la prevenzione degli incendi e la sicurezza degli edifici utilizzati per la produzione della multinazionale, con il quale più di 140 marchi si dimostravano impegnati a migliorare le condizioni di lavoro nelle proprie catene di fornitura: tuttavia, ormai a cinque anni dall’Accordo, un’analisi sulle misure correttive messe in campo dalle aziende in 32 fabbriche, mostra come, ad oggi, siano state mancate diverse scadenze per renderle sicure ed eliminare i rischi di incendio.
L’importanza di queste misure è stata evidenziata, ancora una volta, da un incendio divampato a febbraio 2017 nella fabbrica Matrix Sweaters Ltd, grossista di H&M; in cui, secondo il report di ispezione, “centinaia di lavoratori hanno rischiato di rimanere bloccati dentro la fabbrica in fiamme”.
Il problema, tuttavia, non si limita alle predette multinazionali, ma si estende a tutto il gruppo Inditex (Industria de Diseno Textil Sociedad Anónima), di cui fanno parte aziende quali Zara, Pull and Bear, Bershka, Oysho, Stradivarius, Ulterqüe e altri marchi ancora.
Queste ultime sono state più volte rimproverate di danneggiare l’ambiente, facendo uso, durante la produzione, di sostanze chimiche altamente inquinanti (come alchifenoli e ftalati) e di non garantire soddisfacenti condizioni di sicurezza e salario ai lavoratori.
In merito a quest’ultimo punto, richieste d’aiuto sono arrivate a novembre 2017 quando i clienti di Zara di Istanbul hanno trovato, nelle tasche dei capi acquistati, alcune etichette su cui si leggevano disperati messaggi da parte di chi aveva lavorato per l’azienda senza aver visto riconosciuti i suoi diritti minimi: “Ho fatto io questo capo d’abbigliamento che stai comprando, ma non sono stato pagato per farlo”, si legge).
Tale iniziativa parte da 150 dipendenti della Bravo, l’azienda tessile chiusa a luglio 2017, il cui proprietario era fuggito senza pagare i suoi impiegati e operai, i quali hanno poi richiesto un risarcimento di 2,739,281.30 lire turche (ca. 650 mila euro). Una somma, secondo quanto affermano, che costituirebbe meno dello 0.01% delle vendite al netto per il solo primo quadrimestre del marchio Inditex/Zara.
Inoltre, sappiamo, grazie all’indagine del programma Panorama della Bbc, mandato in onda a ottobre 2016, che grandi aziende come Asos, Zara e Mango hanno, in passato, “assunto” ragazzini di 15 anni che lavoravano fino a 12 ore di fila per un salario di appena un euro all’ora. In precedenza, anche un’inchiesta dell’agenzia Reuters aveva mostrato le prove della presenza di rifugiati siriani minori d’età che lavoravano in fabbriche tessili in Turchia in condizioni di illegalità e pericolo.
In conclusione, poiché non vogliamo essere in alcun modo inconsapevolmente corresponsabili dello sfruttamento di adulti e talvolta persino di minori cui vengono riservate condizioni di lavoro inaccettabili e contrarie ai Diritti dell’Uomo, poiché non vogliamo “vergognarci” di vestirci sapendo che ciò che indossiamo è il risultato di tale sfruttamento, quando compriamo un capo d’abbigliamento in base al prezzo per garantire il nostro risparmio, chiediamoci quale sia realmente il suo costo.
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