Femminicidio: Ernesto Favara uccide Maria Amatuzzo

È il 25 dicembre 2022. In una frazione balneare di Castelvetrano, Ernesto Favara, pescatore di 63 anni, uccide la moglie Maria Amatuzzo, 29 anni. L’omicida, vedovo della prima moglie, aveva avuto due figli dal primo matrimonio. La vittima, a sua volta, aveva avuto due figli, nati da storie precedenti, e che non vivevano più con lei.
I coniugi avevano altre due figlie nate dal loro rapporto: “Da quasi un anno le piccole erano state affidate a una comunità alloggio”, ha riferito il capitano dei carabinieri di Castelvetrano, Pietro Calabrò.
“Mi ha fatto perdere le bambine”, è stata la risposta che l’omicida ha dato al fratello per tentare di legittimare l’uccisione.
Secondo la ricostruzione più realistica della vicenda, Maria Amatuzzo desiderava porre fine al rapporto pericoloso e disfunzionale che aveva con il coniuge, che dunque l’ha uccisa.
Nell’auto-narrazione distorta dell’omicida, risulta evidente come l’unica sofferenza degna di considerazione sia proprio quella dello stesso Favara; al contrario è nulla la rilevanza data al dolore e alla volontà della vittima Maria Amatuzzo, motivo per cui a Maria
non sono state concesse le libertà di persona e di donna secondo cui amministrare la propria vita.
La donna in questa storia, come purtroppo in tante altre, viene raccontata come generatrice di dolore, di sofferenza, di tentazione struggente per l’uomo, che si sente giustificato quindi nell’eliminare attraverso l’omicidio la fonte di tale sofferenza. Una fonte che smette perciò di essere persona e diventa corpo anonimo su cui l’uomo scrive una storia di violenza e abusi.
Dunque, quando Ernesto Favara non si sente più unico amministratore delle vicende che regolano la vita e il rapporto con Maria Amatuzzo, uccide; rivendicando la sua posizione di superiorità, ottenuta per diritto di uomo, aderendo fedelmente al paradigma maschilista e patriarcale.
“Potrebbe esserci la gelosia dietro l’omicidio di Maria Amatuzzo, scrivono oggi alcune testate giornalistiche. Questa approssimazione risulta essere pericolosa, sbrigativa, superficiale: non è la gelosia ad uccidere le donne condannandole alla condizione denaturata di vittime. Ad uccidere è una cultura patriarcale e maschilista, che serpeggia ancora oggi nella totalità degli aspetti e dei fenomeni sociali, e rende la narrazione dei fatti uno fra i suoi più grandi alleati. La narrazione deve necessariamente smettere di avere il suo epicentro nella vittima e non nel carnefice, di sostenere subdolamente l’azione dell’omicida descrivendo i comportamenti “disonorevoli” compiuti dalla vittima, raccontando la storia distorta dei vincitori-abusatori dimenticando la parola delle abusate.

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