Gente che va a Giffoni

È passato un anno dall’ultima volta. Mi ricordo che era mezzogiorno e io ero sola, con una valigia in una mano e uno zaino sulle spalle. L’ho vista arrivare: si è presentata, “Piacere, Ines. Sarò la tua compagna di stanza per i prossimi dieci giorni”. Mi ha detto quanti anni avesse, cosa facesse nella vita. Siamo salite in camera, mi ha raccontato che le piaceva la mia stessa musica.
Succede che certe volte la sintonia è naturale, spontanea: scorre tra le tue braccia e quelle dell’altro, senza che tu riesca a trattenerla in alcun modo. Così, io e Ines siamo diventate amiche: Giffoni Film Festival, anno 2021.

Ines quest’anno ha fatto la maturità. È più libera, più felice, forse. Le gonne lunghe stile gipsy sono le stesse, gli orecchini anche. I capelli più corti le lasciano il viso trasparente, magro e bellissimo. Mi dice che ha conosciuto un ragazzo, “è un tipo interessante”; si mette gli occhiali da sole, canta con me in mezzo a una folla di ragazzi.
Non c’è un momento, a Giffoni, in cui non ti trovi circondato da giovani di qualsiasi età. Gli anni, di solito, li riconosci dai colori delle magliette e da quale ospite aspettano di vedere sul blu carpet. Se non si fermano ad aspettare nessuno, saprai con certezza che sono della “Impact” e che resteranno chiusi in una sala dalle 10 alle 19.30; quasi dieci ore consecutive con una breve pausa pranzo di cinquanta minuti. Ciononostante potrai affermare, con lo stesso grado di sicurezza, che all’undicesimo giorno proveranno una sorta di Sindrome di Stoccolma, che si manifesterà in un’atroce nostalgia al ritorno a casa.

In un video presentazione di Giffoni, una ragazzina diceva che aveva trovato risposta alla domanda più antica del mondo: “Noi chi siamo?”. Diceva che siamo gente che va a Giffoni: perché Giffoni è il mondo.
È il mondo che da quattro anni a questa parte trovo in questo paesino che conosco a memoria; in cui trovo la gente, la gioia, il dolore; trovo le storie, il vecchio, il nuovo, gli incontri, la musica, il cinema, le esperienze. Trovo l’amicizia: la stessa che mi lega ad Ines dalla prima volta in cui si è presentata.
E se penso che due mesi dopo avrei avuto il coraggio di prendere casa nella mia nuova città- Milano- con due sconosciute, solo grazie a quei dieci giorni di condivisione di tempo e spazio insieme a lei, mi viene un po’ da ridere, un po’ da piangere. In effetti, le emozioni non sono mai bianche o nere al Giffoni; qui si fondono piuttosto, mescolandosi in una combinazione di sensazioni quasi contraddittorie.

Nelle ultime due settimane, seduta nella mia poltroncina blu (in quella sezione, per l’appunto, ben nota per la cosiddetta Stockholm Syndrome), ho avuto modo di ascoltare e di parlare. Ho ascoltato che raccontare è fondamentale, perché aiuta a sentirsi meno soli, nel bene e nel male. Ho ascoltato che la sofferenza esiste, ma che è meraviglioso sapere che si può rinascere. Ho ascoltato che le persone fanno i lavori più strani e diversi del mondo e mi è venuta voglia di impararli tutti. Ho ascoltato che ci si può volere bene, anche se tu sei del Veneto ed io sono della Puglia, anche se io ho vent’anni e tu trenta, anche se io studio storia dell’arte e tu fisica quantistica. Le differenze, in questo luogo magico, non sono azzerate; bensì, sono convinta che si esplicitino al punto che è più facile riconoscerle, comprenderle e apprezzarle.

Io non so cosa ho meritato per avere questo regalo. Ma saprò sempre che lì, a Giffoni Valle Piana, c’è la mia casa. Una casa grande, abitata da migliaia di ragazzi, dove amare, soffrire, morire e poi vivere è libero.

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