Credo che la felicità sia qualcosa che non mi appartiene.
Mi ci sono sempre trovato stretto e col tempo ho preferito iniziare a guardarla da fuori, costruendoci intorno un muro, mattone dopo mattone, giorno dopo giorno, che mi facesse desistere dalla tentazione di entrarci dentro per un’ultima volta.
La felicità non mi appartiene ma non l’ho deciso io.
Non saprei dire se l’ha deciso lei: ultimamente parliamo poco.
Che poi oddio, ultimamente.
Penso sia passato davvero tanto tempo da quando l’abbiamo fatto per l’ultima volta.
Così tanto che stento a ricordarlo.
Non ci siamo mai appartenuti e forse ci siamo addirittura cercati male.
Vuoi per la mia inclinazione a sentirmi comodo nel dolore, nel male che provo e che affronto quotidianamente.
Vuoi perché alla felicità del contorno interessa poco: se non la cerchi difficilmente viene a cercarti.
Si fa poche domande, io più di quante dovrei.
È un’insanabile prima differenza che ci mette necessariamente su due pianeti lontani.
Quelle rare volte in cui mi ci sono avvicinato, quei pochi momenti in cui ci siamo sfiorati, non posso nascondere – e soprattutto nascondermi – di esserne stato completamente galvanizzato.
Come se fosse la più potente delle droghe.
Con il problema di non essere mai riuscito a restarne assuefatto.
Perché la vita con me non è mai stata equa, non è mai stata giusta.
Ho visto più morte che amore, ho vissuto più dolore che pace.
Perché se i tuoi si lasciano sul treno di ritorno da una vacanza e tu hai 8 anni, soffri.
Perché se devi essere tu l’anello di congiunzione tra due persone che vivono le proprie emozioni in una misura estremamente opposta, soffri.
Perché se perdi un padre all’alba dei 13 anni, quel padre in cui hai sempre riconosciuto te stesso, soffri.
Perché se a 20 anni vai in depressione, e non riesci nemmeno a dirlo a te stesso, e ti ripeti continuamente che “verranno giorni migliori” e quei giorni migliori non arrivano mai, soffri.
Perché se riesci con le tue forze ad uscire da quella depressione, e non riesci nemmeno a goderti quell’accenno di serenità che tua madre si ammala e il mondo ti ricade addosso, soffri.
Soffri, non c’è dubbio.
Però odi far vedere agli altri che soffri, devi necessariamente dimostrare di riuscire a gestire sempre tutto, di tenere sempre botta.
Che poi il tutto non si racchiude solo nel farlo vedere agli altri, ma nel farlo vedere a te stesso.
Ogni tanto mi chiedo come mai non mi sia ancora ammazzato.
Poi mi rispondo che sarebbe troppo facile, e a me le cose facili non piacciono.
Sarebbe facile dire che la felicità non esista, o accettare che sia fugace, che la pace, la serenità, l’equilibrio, che ricerco dal primo dei miei drammi, siano un qualcosa di puramente utopistico.
Ma odio accontentarmi.
Però è indubbio che nella felicità non ci so stare bene, ed è perché non ci sono abituato.
L’ho cercata nell’amore, nel successo, nella gloria, senza mai trovarla davvero.
Non l’ho trovata mai, la felicità, in quello che mi davano gli altri e allora ho pensato che dovessi partire da me.
Quindi ho iniziato a scavarmi dentro, fino a farmi male, caricandomi di responsabilità, di aspettative.
Ho avuto il piacere di riscoprire il dolore da cui mi sono nascosto per una vita, di iniziare a parlarci.
Ma soprattutto, rannicchiata, quasi esanime, ho ritrovato la speranza.
Non saprò mai dire se la felicità mi si addica, perché tutt’ora non mi ci so muovere, perché ne sarò sempre terrorizzato.
Ma quella speranza che ho riscoperto la custodisco gelosamente.
La speranza di riuscire a sconfiggere una volta per tutti i miei mostri.
Il quando non è importante.
Un giorno una cartomante mi disse, quasi aggressiva, di smettere di vivere la vita con distacco.
Di distruggere quel muro costruito con cura, mattone dopo mattone.
Di buttarmi nelle cose e viverle per come sono, di farmi prendere a schiaffi dalle delusioni e di immergermi nella felicità.
Ma, cartomante, io non sono pronto.
Perché lo schiaffo di una delusione, anche effimera, non lo voglio proprio più.
Non riesco a contemplarlo.
Perché se mi metto a nudo davanti alla vita voglio sentirmi gratificato, voglio il ritorno che merito.
Ho un estremo bisogno di certezze perché ad oggi non ne ho.
Sono stanco di inseguire scintille in cui vedo incendi, e allo stesso tempo non voglio assolutamente privarmene.
Perché io di incendi ne vedo proprio raramente, e la voglia di farmi bruciare è immensa.
Però resta la paura che siano solo scintille, o forse nemmeno quelle.
E allora resto fermo nei miei musi lunghi, nelle mie incertezze.
Perché per quanto la vita non sia mai stata equa non riesco a smettere di sperarci.
Anche perché con me è sicuramente in debito.
Quanto a me, resterò ancora un po’ a guardare la felicità da fuori, con il male ormai ci ho fatto il callo.
La guarderò da fuori, aspettando il giorno in cui brucerò anch’io.
Verranno giorni migliori.
Forse.