La storia siamo noi

Chiacchierata con uno studente in Ucraina

[…] la storia dà i brividi, perché nessuno la può fermare. La storia siamo noi, siamo noi padri e figli, siamo noi, bella ciao, che partiamo. La storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano.

-F. De Gregori, La storia (1985)

Noi di Parolaperta abbiamo deciso di affrontare la crisi russo-ucraina da un punto di vista diverso. Senza nulla togliere ai pareri di esperti, politici e giornalisti d’esperienza, che numerosi abbiamo letto in questi giorni, abbiamo pensato che c’è un tipo di parere troppo spesso ignorato: quello di chi la crisi la sta vivendo in prima persona. Cosa farei io, ragazzo comune di ventun’anni in una tale situazione? Cosa fareste voi? Come ce la staremmo vivendo? Ho avuto il piacere di incontrare Kamal e di scoprire come gli ucraini stanno affrontando quest’ultimo periodo. E per ucraini, intendo il popolo comune, quello che potrebbe essere formato anche da me o da molti di voi. Perché come ha cantato De Gregori: la storia siamo noi (attenzione, nessuno si senta escluso).

Kamal vive a Charkiv, la seconda città ucraina per popolazione, a pochissimi chilometri dal confine con la Russia. Ha origini marocchine e da due anni si è trasferito lì per studi universitari. Mentre mi parla appare calmo: è appena rientrato da un sabato sera con gli amici al bar. Niente di strano se non che contemporaneamente, a pochi chilometri da lì, la guerra sta iniziando veramente. O, in ogni caso, le tensioni stanno nettamente aumentando.

Glielo chiedo, come mai sia così calmo. La sua risposta è spiazzante ma lineare: “Qualcuno è spaventato, ma la maggior parte di noi vive la propria vita tranquillamente: è una situazione ordinaria”. Una descrizione che a me ha ricordato molto – lui ha negato dicendo che anche quella da loro era stata vissuta in modo meno emergenziale che da noi – quanto due anni fa successe nelle prime settimane pandemiche. Quando, per capirci, ancora non riuscivamo a comprendere la reale gravità della diffusione del virus, in tanti sottovalutavamo il problema e qualcuno, ma in minoranza, assaliva i supermercati terrorizzato.

Superata questa riflessione si rende conto di come io ancora non mi capaciti di un tale rilassamento, alla luce delle notizie riportate dalle varie testate giornalistiche occidentali che danno la guerra per imminente, o comunque la ritengono un rischio concreto. E allora, senza che io ancora abbia aperto bocca per una nuova domanda, aggiunge: “Qui una guerra è in atto già da tempo: sono abituati”. Come a dire: nulla di nuovo. Il riferimento è ovvio, ne ottengo conferma: si tratta della guerra del Donbass, che dal 2014 turba l’omonima regione ucraina. Questa regione occupa il confine sudorientale con la Russia e da sempre è abitata in grande percentuale anche da russi. Negli ultimi anni era arrivata una spinta verso l’indipendenza, in seguito all’annessione della Crimea alla Russia, cui erano seguiti i disordini di cui mi accennava Kamal e all’autodichiarazione d’indipendenza della Repubblica Popolare di Donetsk e della Repubblica Popolare di Lugansk. Le due repubbliche non erano mai state riconosciute dai Sovietici, nonostante l’evidente spinta separatista, pur non ufficiale, che essi abbiano dato. Anche la sua città, inizialmente, era rimasta coinvolta. Si trova circa 300 km a nord di Lugansk ma a differenza delle altre due è rimasta, per ora, del tutto ucraina. Non è, come lui definisce le città simbolo delle due repubbliche popolari, ‘già conquistata dai russi’. E se fino a lunedì sera anche Putin avrebbe negato quest’affermazione, forse ora le cose sono veramente cambiate.

Tutto come trapela dai notiziari qui in Italia, dunque: in Ucraina non si vive lo stesso grande allarmismo che percepiamo dall’esterno. Eppure, da casa sua, Kamal gli spari li sente: sono probabilmente quelli delle esercitazioni militari al di là del confine. Quando me lo racconta la domanda mi sorge spontanea: va bene l’atteggiamento volutamente rilassato, va bene l’essere in parte già calati da tempo in uno scenario di un certo tipo, ma lui, in quanto cittadino comune, ragazzo di vent’anni che si trova lì esclusivamente per motivi di studio, non è spaventato? Non pensa che, anche minimamente, il rischio di uno scenario tragico ci sia?

La risposta è un ossimoro di fronte al suo fare tranquillo: lui non pensa che la guerra possa scoppiare, lui pensa che “la guerra scoppierà”, è inevitabile. Anzi: “sta già iniziando”, si corregge. E allora che tipo di conflitto si aspetta? In queste settimane abbiamo sentito parlare di tutto: guerra in stile classico, novecentesco, con gli spari e i bombardamenti; un possibile ritorno alla Guerra Fredda; una guerra definita ‘ibrida’, caratterizzata da attacchi informatici più che da scontri militari; l’infowar, una guerra di informazioni, dove a farla da padrona è il modo di comunicarle, le vicende politico-militari. Replica con ciò che meno uno si potrebbe aspettare in quel momento: un detto niente meno che russo, che recita “Nessuno sa cosa accadrà domani”. Poi però implicitamente esprime la sua previsione per il futuro: “la Russia non conosce Guerra Fredda”. Con la quale intende dire: il fuoco arriverà. Mi colpisce la consapevolezza tagliente con la quale lo afferma.

Ma se il fuoco arriverà, è evidente: Kiev e l’intero Paese capitoleranno in poco tempo. La ‘piccola’ (solo proporzionalmente) Ucraina quante speranze può avere, d’altronde, contro l’enorme Russia? Davanti ad un tale scenario, mi sono chiesto, come si sente un abitante ucraino? “Non abbandonato”, mi dice lui, “gli americani non possono intervenire direttamente ma è evidente che Biden stia solo aspettando un passo falso di Putin. E ci riforniscono con le armi”, ha aggiunto. Forse la sua è solo una speranza, forse ha veramente fiducia, in ogni caso non è uno che ha perso il controllo. È consapevole della gravità della situazione, ma sereno.

Ma qual è il piano di emergenza? Davanti ad una tale consapevolezza, che sembra non mancare, come agirebbe Kamal nel momento in cui la guerra iniziasse veramente?

“Ci sono dei piani di fuga verso la Polonia”, mi racconta, “non abbiamo indicazioni particolari, almeno che io sappia. Ma la Polonia è la meta che i più raggiungerebbero.”

Gli chiedo quindi se ci sono dei voli organizzati. “C’erano”, risponde, “ma ora ormai sono quasi scomparsi.”

Come mai allora lui non è ancora scappato, non ne ha approfittato ed è rimasto lì? Le ragioni sono due: innanzitutto, una sorta di sentimento da moschettieri Tutti per uno, uno per tutti: “lo abbiamo deciso insieme con i miei amici. Alcuni di loro dovevano restare, impossibilitati a partire, e allora abbiamo deciso di restare tutti”; ne esprimo ammirazione: “anche io”, gli racconto, “allo scoppiare della pandemia ho preso la stessa decisione con i miei amici, non abbandonando la mia città universitaria per quella dove ero cresciuto. Ma qui la situazione è ben diversa: a voi non basta un lockdown per rimettere in sicurezza le cose”; poi aggiunge: “il biglietto per il Marocco costa quasi mille euro, non era facile prendere la decisione di partire per poi magari dover rientrare da lì a poco”. Una barriera economica che dovrebbe far riflettere.

In caso di invasione, però, Charkiv potrebbe non avere neppure il tempo di accorgersi di dover mettersi in salvo. È tra i punti che per primi i russi raggiungerebbero una volta superato il confine. Una fuga in aeroporto, dunque, potrebbe in ogni caso diventare un miraggio, con le distanze che improvvisamente si allungherebbero e diventerebbero impossibili da percorrere. Ci sono allora delle indicazioni da seguire? Dove si rifugerebbe lui in una tale situazione?

“La metro. Mi nasconderei lì”, ma non è un consiglio del governo, è una soluzione che lui ha trovato da sé. Da quello che mi racconta (potrebbe semplicemente essere lui poco informato), l’impressione è che per il governo ucraino, nella comunicazione con i suoi cittadini, il problema quasi non esista. Quanto esso trasmette preoccupazione ai Paesi esteri, tanto predica calma (con l’esempio prima che con le parole) nei confronti del suo popolo. Nei giorni passati avevo letto di un ‘manualetto di guerra’ che veniva distribuito per le strade, negli uffici ed era disponibile anche online. Doveva fornire piccoli consigli da attuare in caso di emergenza. Eppure, posto che lui non se lo sia andato a cercare, Kamal non lo possiede: non solo non lo ha ricevuto, ma non ne conosce neanche l’esistenza. Probabilmente l’opuscoletto non ha avuto ovunque la stessa diffusione.

Ma ancora, essendo così vicini al confine, ci si sente più preoccupati rispetto a chi vive più nel cuore del Paese, ad esempio a Kiev? La sua risposta è nuovamente spiazzante ma lineare: “No, al contrario. Se i russi volessero bombardare, credo sia più facile che optino per Kiev. Difficilmente faranno stragi qui: essendo vicino al confine è pieno di russi, ed eviterebbero di creare potenziali vittime russe per loro stessa mano”. Eppure, in caso di attacco, dalle sue parti i russi dovranno per forza passarci per raggiungere Kiev. Ed è difficile pensare che gli ucraini si lascino attraversare con una passerella celebrativa. Allora mi chiedo, quale sarebbe il clima? Lui ha anche amici russi, magari con alcuni di loro ci è appena uscito. Cosa succederebbe? Improvvisamente si ritroverebbero avversari: è un altro dei tanti aspetti tragici della guerra.

“Per ora il tono è amichevole”, racconta, “e credo che i russi che vivono qui comunque non vogliano problemi. Resterebbero neutrali, o comunque starebbero dalla nostra parte”. Lo dice con estrema convinzione, o forse è solo una sua intima speranza. Difficile poter veramente valutare con certezza talune dinamiche e circostanze.

L’impressione, dunque, è che, forse proprio per non perdere lucidità, gli ucraini tendano a vedere come più probabile il meno grave degli scenari possibili. Non sono inconsapevoli del problema, o almeno Kamal non lo sminuisce mai: piuttosto predice (ma è probabilmente più qualcosa che si augura che qualcosa di cui è sicuro) una guerra lontana dalla sua città, o, nel momento in cui il fuoco arrivasse a Charkiv, un tono amichevole con i suoi amici russi e un rifugio sufficiente nei tunnel della metropolitana. Mi dà l’idea di una persona che si è resa conto della sua impotenza davanti alla stessa situazione: ha deciso di non fuggire e a quel punto non ha modo di modificare gli eventi; cerca solo di rimanere sereno e aspetta l’arrivo dell’uragano, preparandosi ad affrontarlo nel miglior modo possibile. Ha 20 anni e per riuscire in qualcosa che dovrebbe essere quasi scontato, sopravvivere, gli tocca prendere un’unica strada: quella della resistenza.

Tornando ad un discorso più generico gli domando qual è il suo punto di vista sui motivi di queste tensioni. Gli esperti ci parlano da settimane della paura di Putin di rimanere isolato, di perdere del tutto il ‘cuscinetto’ di Paesi non NATO davanti a lui, visto anche l’avvicinamento degli ultimi tempi tra NATO e Ucraina. Ma lui, vivendoci sul confine, pensa che ci siano altre motivazioni legate a determinate caratteristiche di quei particolari territori?

Esclude questa possibilità.

Torno a chiedermi, allora, alla luce di un’odierna crisi mondiale da un punto di vista economico, sanitario e ambientale, se questa guerra sia veramente utile a qualcuno. Giochi di potere comprensibili o meno, anche per Putin, ne vale veramente la pena? L’impressione è che al Cremlino si siano incartati da soli, e ora cerchino solo di evitare una brutta figura. La realtà, però, è che ne stanno facendo una ancora più grossa.

2 risposte

  1. giò è quello che viene spontaneo chiedersi, con una pandemia ancora in atto che miete ancora morti e creerà ancora effetti pesanti sull’economia era il momento di far espodere un casus belli e peggio ancora una vera guerra per motivi che nemmeno si comprendono? o quantomeno nel nostro piccolo non arriviamo a capire?

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