Piccolo disclaimer: la rubrica musicale di Parolaperta cambia forma e cambia nome; potete trovarla sotto il titolo di ‘Liricismi’.
L’intento principale della rubrica è sempre stato quello di analizzare il contenuto e intento comunicativo dell’opera di un dato artista. Fino ad ora il genere di riferimento è stato il rap, figlio ultimo tra i generi musicali, nel tentativo di donargli una dignità e un’identità nuove, o che almeno si discostino dalla retorica del denaro e dei gioielli.
Ora è arrivato il momento di concederci all’analisi dei grandi del passato cantautorale e ai giovanissimi dell’indie-pop contemporaneo, perché la potenza del vocabolario italiano ha storicamente -e assolutamente- permesso alla musica italiana di toccare picchi lirici ineguagliabili.
Come primo episodio della versione 2.0 di Raptures ho cercato un esempio limpido dell’indistinguibile rapporto che lega il rap italiano al cantautorato.
I riferimenti dei vari esponenti della scena sono stati vari ed eventuali, basti pensare a “Il cielo nella stanza” di Salmo, evidente riferimento a “Il cielo in una stanza” scritto da Gino Paoli ed interpretato da Mina, o alla più esuberante “Bling Bling (Oro)” di Guè, tributo alla celebre “Oro” interpretata da Mango e scritta da Mogol, o a Mondo Marcio, che annovera nella sua discografia un featuring con Mina, “Angeli e Demoni”.
Le influenze e le poetiche di grandi come Lucio Dalla, Pino Daniele, Rino Gaetano o Franco Battiato, sono -in egual misura- talmente radicate nella lirica dei giorni d’oggi da avermi reso decisamente difficile la scelta dell’analisi che oggi vi propongo.
Riflettendo, ho concluso che l’unico autore che avrebbe potuto dare continuità al progetto non è altri che il cantautore più “rapper” che sia mai esistito: Fabrizio De André.
De André ha fondato la sua poetica su prostitute, amori irrisolti, provocazioni, condanna del denaro, esistenzialismo ostentato e narrazione degli ultimi – è veramente così diverso dal primo Guè o dal più recente Marracash?
Provocazioni a parte -e fate attenzione, volevo paragonarlo a Tony Effe, ma vi/ci ho risparmiati-, Faber è innegabilmente nell’Olimpo delle penne italiane.
Vi parlerò di “Dolcenera”, omaggiata recentemente da Izi, con una cover che nulla toglie all’originale, sia come interpretazione che come arrangiamento.
“Dolcenera” è solo uno dei tanti modi in cui De André ci ha raccontato l’amore.
Si parla di un adulterio, che vede protagonisti il narratore, la moglie di Anselmo e l’acqua; quest’ultima, presente in svariate forme, prima tra tutte la pioggia.
Il contesto a cui fa riferimento questa storia, è quello della rovinosa alluvione di Genova del 1945.
Si tratta di una pioggia nera, mischiata al fango, che picchia e butta giù le porte.
Il narratore non è preoccupato dall’intensità dell’alluvione, quanto dal fatto che essa potrebbe rallentare l’arrivo della moglie di Anselmo, la sua amata.
“Ma la moglie di Anselmo non lo deve sapere,
che è venuta per me,
è arrivata da un ora.
E l’amore ha l’amore come solo argomento,
e il tumulto del cielo ha sbagliato momento.”
Il tumulto del cielo ha sbagliato momento.
Questo fragore, questo rumore, sono quasi inadatti, fuoriluogo, rispetto all’incontrollabile amore che il protagonista prova; tanto incontrollabile da alienare il narratore, imprigionandolo nell’ansia e nell’euforia dell’incontro con la moglie di Anselmo.
Ed è talmente alienato da quasi voler nascondere quella nota stonata nella giornata che li aspetta, non solo a sé stesso, ma anche alla donna che ama, che “non lo deve sapere, che è venuta per me”.
Più avanti la narrazione si sposta su quello che sembra essere un rapporto sessuale, descritto con i versi: “la moglie di Anselmo sta sognando del mare” – ad indicare il piacere – “…e il lenzuolo si gonfia sul cavo dell’onda, e la lotta si fa ancor più scivolosa e profonda”.
L’acqua diventa sinonimo di piacere fisico e allo stesso tempo d’amore, nella sua natura dolce e nera, nel suo essere in un tempo bene e male – continua poi con “Acqua che stringe i fianchi, tonnara di passanti”.
Poi l’amplesso finisce, la lotta scivolosa e profonda diventa un prendersi “per mano a battaglia finita.”
I due versi successivi sembrano riflettere il pensiero di entrambi gli amanti:
“[…] quest’amore che dall’ansia di perdersi,
ha avuto in un giorno la certezza di aversi.”
Li immagino a scambiarsi uno sguardo convinto della grandezza di un amore al di fuori di ogni logica comune e che può appartenere solo a loro.
Quasi come a voler dire che quell’istante fugace basti a dare forza e dignità all’amore che li lega.
De André racconta la certezza di un aversi, che prescinde le accezioni canoniche dell’amarsi: con tre parole centra la consapevolezza dei due amanti, fortunati nell’essersi incontrati.
La nona strofa, invece, recita:
“E la moglie di Anselmo sente l’alba che scende
Dai vestiti incollati ad ogni gelo di pelle
Nel suo tram scollegato da ogni distanza
Nel bel mezzo del tempo che adesso le avanza
Così fu quell’amore dal mancato finale
Così splendido e vero da potervi ingannare”
Qui De André, che, come anticipato, ha fondato la sua poetica su prostitute, amori irrisolti, provocazioni, condanna del denaro, esistenzialismo ostentato e narrazione degli ultimi, rompe la magia di quest’amore imperfetto: gli amanti, in realtà, non si sono mai incontrati, perché la moglie di Anselmo è morta durante il tragitto per raggiungere la casa del narratore, travolta dall’alluvione che stava distruggendo Genova.
Dando una seconda lettura al brano, potrete rendervi conto di quanto la narrazione dell’amore collimi, attraverso la metafora dell’acqua, con la morte della moglie di Anselmo.
Assume allora più potenza anche quella “certezza di aversi”, la quale non è da considerarsi come racchiusa nell’atto compiuto, quanto nel tentativo della moglie di Anselmo di raggiungere il suo narratore; certezza che lui acquisisce solo nel momento in cui viene a sapere del decesso.
Riguardo l’interpretazione del brano, Faber aggiunse:
“Questo del protagonista di Dolcenera è un curioso tipo di solitudine. È la solitudine dell’innamorato, soprattutto se non corrisposto. Gli piglia una sorta di sogno paranoico, per cui cancella qualsiasi cosa possa frapporsi fra sé stesso e l’oggetto del desiderio.”
L’autore, con precisione chirurgica, tratta di quella capacità -intrinseca alla mente di chi ama- di sognare e di farlo tanto intensamente da riuscire a distorcere la realtà, facendola apparire agli occhi di chi sogna troppo positiva o altrettanto negativa. E’ questo ciò che rende, poi, impossibile il ritorno sul binario, tanto è sgretolata la locomotiva: ci si ritrova privi di certezze, senza mezzi e destinazioni, con la nostra mente che si rivela l’unico grande nemico.
Non credo che De André, in tutta la sua discografia, abbia mai voluto impartire una morale a qualcuno: non giudica il narratore per aver edulcorato la realtà, non condanna il fato per essersi messo di traverso.
Piuttosto celebra un “amore dal mancato finale, così splendido e vero da potervi ingannare”.
Racchiude in un amore irrisolto la possibilità concreta di essere splendido e vero, a prescindere dalla concretezza dello stesso.
Celebrando quest’amore forse giudica noi tutti (e sé stesso), indistintamente, che conferiamo all’amore solo sé stesso come unico argomento, rendendolo privo di differenti declinazioni, e rendendo noi schiavi di retoriche tossiche e vuote.
Forse dovremmo essere capaci di subire una “Dolcenera” per capire l’essenza dell’istante, vivibile solo quando resta, irrimediabilmente, sé stesso.