Fase tre: nella morsa di un abbraccio.
Mi sono perso nella mia stessa apatia.
Sai, ho sentito il calore di milioni di abbracci andare a spezzarsi nell’arco di pochi istanti, nella mia più totale confusione, nel non saper mai distinguere il bene e il male, nella mia assoluta incapacità di non sapere da che parte andare, nei miei escamotage, nel diluvio universale dei miei pensieri.
Per poi rimanere in bilico, tra ciò che sarebbe stato meglio per me e l’empatia suprema che riservavo per chi mi sedeva dinanzi.
Nel trambusto di abbracci sinceri, talvolta velati di sarcasmo, in quelli di addio di chi, in realtà, voleva rimanere, ma che io non riuscivo a trattenere.
Quante volte sono inciampato nelle briciole della mia stessa essenza, della mia bontà e gentilezza, nella mia bravura, ci sono caduto dentro, a capofitto.
Quasi fosse una condanna voler bene e saper amare, concedersi la facoltà di essere felici.
E io parlo d’amore, come se lo sapessi fare, in termini di guerra e pace.
Quante volte ho fatto a spintoni con il mio senso estremo di giustizia, lo stesso che ho assecondato quasi come fosse una donna a cui piacere, una da amare, un’altra da accudire.
Il rifiuto verso me stesso, verso quello che sono, peggio ancora verso quello che sono stato, nella mia capacità di non concedermi di sbagliare, di poter scivolare, solo perché me l’aveva detto qualcun altro, che avrei dovuto mettere il freno a mano.
Ma io so perdermi nella mia stessa apatia, nel mio costante interrogativo che è la vita, nel chiedermi dove stia andando, nei miei amori mancati, di cui tanto blatero, negli stessi che mi trascino, come fossero strascichi di normalità, nella forza della mia penna, la stessa che ha questo tratto, così leggero e al contempo così pesante, la stessa che mi permette di dar voce all’abisso delle mie emozioni, che mi permette di mettere a soqquadro questi scatoloni emotivi che straripano d’invidia per chi ama, per chi ha saputo essere amato ed essersi amato.
Che poi forse meritiamo un po’ tutti di essere felici.