Enfant terrible

Blanco fermati, ti prego.

Fermati perché se continui a correre forte c’è il rischio che non ti riesca a prendere più nessuno.

Parlando con un amico, a metà agosto, riflettevo su quanto un album della next big thing del rap italiano potesse essere considerato quantomeno prematuro.

Vuoi la poca esperienza, vuoi l’aver sfornato hit su hit –‘Notti in bianco’ e ‘Mi fai impazzire’, nondimeno ‘Paraocchi’- che non comporta altro che enormi aspettative.

Blanco era un sogno talmente vivido e prepotente da cui non mi sarei mai voluto svegliare.

Il concretizzarsi in un progetto metteva l’artista e chi l’ascolta davanti alla possibilità di una caduta rumorosa.

Soprattutto perché più talento c’è più rumore fai quando cadi.

E quando hai un pubblico, come in Italia, a cui il talento fa paura ed è pronto a metterti alla gogna al primo passo falso, cadere è più semplice di quanto si pensi.

Ma veniamo a ‘Blu Celeste’, il salto nel vuoto di Blanco.

Primo pezzo, ‘Mezz’ora di sole’.

Apoteosi di fotta, pochi cazzi.

È il ritratto perfetto della malinconica e genuina energia caratteristica del rapper bresciano.

Chiede pace, libertà, manda al diavolo il dolore, vuole solo “Mezz’ora di sole, a peso morto nel mare”.

Tralasciando le già note, la tracklist continua con “Figli di puttana”, quasi un ritratto generazionale, un disegno di vizi, angosce e di un’innata voglia di farcela con tutti i propri mezzi.

Star male a volte, sai, mi ripulisce

Fanculo, poi mi passa e poi guarisce

D’impatto è sicuramente la titletrack, “Blu Celeste”.

Chi non si emoziona davanti a questa canzone è probabilmente privo di cuore.

Blanco canta -probabilmente- di un fratello passato a miglior vita.

In una recente intervista ha dichiarato di non voler entrare nel particolare, in modo che chiunque possa darne una propria interpretazione.

Ma Blanco, Dio mio, come fai ad avere la lucidità di chi sa gestire la musica come un dono per gli altri e non come una mera ostentazione del proprio ego? È innaturale, a diciott’anni.

Beato te.

Dicevamo.

Blanco scrive questo brano a sedici anni, il mood si fa via via più struggente e le sonorità riescono a toccare nel profondo, quasi cullano l’ascoltatore dentro la baraonda di malinconia dell’artista, a far sembrare che la canzone sia destinata a non finire mai

“E mi metterò al riparo mentre imparo ad accettarlo
Che se il tempo l’ha già fatto, ora sei un mio ricordo
Un mio ricordo immaginario del fratello che vorrei

Probabilmente avevo qualche aspettativa in più su “Pornografia (Bianco Paradiso)”.

Non prendiamoci in giro, Blanco urla tante cose, ma urla soprattutto sesso.

Sesso giovane, irrazionale, primitivo, selvaggio.

Il brano, salvo qualche immagine, resta eccessivamente coerente con il resto dell’album,

Mi sarebbe piaciuto vederlo osare di più, superarsi insomma.

Magari anche a livello tecnico, provare con qualche flow più provocatorio, o quantomeno più variegato, e non solo in questo brano.

Diversificare il suono, siccome già lo padroneggia discretamente bene, sarebbe stato uno schiaffo in faccia a chi lo addita come “mono flow”.

Ma ha 18 anni, ha tutto il tempo e i mezzi del mondo.

L’immaginario di Blanco ha massima espressione del suo essere in “David”.

Immagini quasi patinate, ma sempre dinamiche, – “Cresciuti sotto un fiore, nascosti coi segreti / Creati da Dio, sparsi nell’universo”.

Il brano si presenta meno provocatorio, racconta di una figura femminile, la bellezza della quale è fotografata da Blanco in un istante frenetico, frenesia da cui lei resta distaccata.

Come se tutti fossero ammaliati, e attirati, dalla sua bellezza, ma lei ne resta completamente indifferente.

Ed è questa indifferenza, paragonata all’indifferenza posturale del David di Michelangelo a Firenze, che colpisce il rapper bresciano, che sembra voler scavare a fondo dentro questo atteggiamento, quasi sviscerarlo.

L’album si chiude poi con “Afrodite”, personalmente il brano che più mi ha colpito.

È quasi un sunto di quello che è Blanco, l’immagine del cielo senza lentiggini, l’“uccidere un’emozione”, il vizio, il marasma, la fotta.

Racconta della sua Afrodite, di questa lei capace di fargli ricordare “la prima volta da innamorato”, ma che nel concreto è “qualcosa che non c’è mai stato”.

Racconta di quest’amore malato di sé stesso, incastrato in retoriche marcie ed incapace di autogestirsi.

Quest’amore sembra aver svuotato l’artista, ed è come se si sentisse abbandonato a sé stesso e al vuoto a cui si è autocondannato.

“Anche se giro come fossi un vagabondo
E mi sento come un pozzo senza fondo
Cercando qualcosa di nuovo
Che mi riempia questo vuoto”

Tra le righe si evince quanto il ricordo di questa ragazza ogni tanto torni a bussare nella mente di Blanco, che sia in un sogno, che sia in un contesto, che sia nella solitudine.

Non è casuale la figura di Afrodite, dea greca della bellezza e dell’amore.

Non so quanto possa essere attinente alle intenzioni di Blanco, ma sembra che voglia cogliere il lato più oscuro della dea, andando ad individuare tutti quei meccanismi che spesso sono i sintomi di un amore malato.

Il rapper sembra aver bisogno necessariamente della sua Afrodite per stare bene, ha il bisogno che sia lei ad aumentargli le endorfine, sembra che sia solo lei a potergli dare un motivo per vivere.

È come se Blanco fosse completamente impotente di fronte all’amore (o al dolore?) che lei gli provoca, tanto impotente da ricaderci ogni volta che lei sembra aver bisogno di lui

Quando hai chiamato, ho corso e son venuto di corsa,

Siamo a piedi nudi sopra i fili spinati,

Non ti ho chiesto per cosa, senza volere cose,

Son venuto da solo, da solo a cercarti”

L’ammissione sul finale del ritornello è segno di una presa di coscienza da parte dell’artista, Afrodite in realtà non c’è mai stata, se non nelle sue illusioni e nell’amore che solo lui provava davvero.

E nell’intero brano Blanco urla proprio la più grande delle sue vittorie, il riuscire a guardare quell’amore con la lucidità necessaria per sconfiggerlo, anche quando ritorna a bussare.

L’album, in toto, è un ottimo primo album e chi lo nega pecca di onestà intellettuale.

Blanco è sicuramente un artista atipico, ma ciò che probabilmente manca di più è proprio questa sua atipicità caratteristica.

Allo stesso modo, per confermare la sua solidità, il rapper aveva la necessità di consolidare quella parte di talento che già è emerso e di consolidarsi nelle cuffiette e nelle playlist del suo pubblico.

Blanco è quanto di più simile a Post Malone che il rap italiano abbia mai sfornato, e mi assumo tutte le responsabilità del paragone del caso.

Le sue sonorità sono un misto di libido pura, arroganza ostentata e voglia di disintegrare tutto ciò che si trova davanti.

E se a questa attitudine -quella che qualsiasi diciottenne meriterebbe di avere- ci aggiungiamo un talento fottuto, esce fuori una bomba ad orologeria.

Blanco è Antonio Cassano che passa al Real Madrid, sperando che riesca ad avere più testa del Pibe di Bari Vecchia, e che quindi il suo accesso -del tutto legittimato- nell’olimpo del rap game non sia un fuoco di paglia.

E allora sorvoliamo su tutte quelle che possono essere delle sacrosante sviste, come qualche episodica banalità nella scrittura, ha tutto il tempo di migliorarsi, prese e considerate solidissime basi da cui partire.

Godiamoci Blanco ed il suo essere aggressivamente acerbo e maledettamente forte.

Godiamoci il suo talento da enfant prodige e la sua attitudine da enfant terrible.

Godiamoci le sue verità ed il suo essere vero, la sua voglia di sfondare i muri.

Perché Blanco non è l’eroe che il rap italiano merita, ma l’eroe di cui il rap italiano ha bisogno.

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