Compagni offesi, come me, si ritrovarono senza amore tra le mani.
Taras era fuggito dal paese… le due ex consorti, la figliola, il fratello teppistello, erano tutti rimasti in quel sobborgo ad est di Kyiv.
Igor era vedovo: la giovane sposa era stata uccisa per vendetta, in una resa dei conti nel giro di debiti per il gioco d’azzardo, a Leopoli.
Sanya era sfuggito alla carriera ecclesiastica desiderata dalla madre anziana e sola, e per contrappasso era diventato un falsario di documenti e un irriducibile bevitore.
Mikhail amava la compagnia delle prostitute, ma si trattava di un pederasta latente, con tutta evidenza presso noialtri.
Le giornate le spendevamo nel retrobottega del macellaio soprannominato “’O Polacco”, annacquando le nostre malinconie in sudici banchetti consumati sul pozzetto per i surgelati.
Non c’era nulla da amare, solo il bacio vibrante da cento grammi, a quaranta gradi, inodore, incolore, sul labbro vitreo di un bicchierino: la vodka.
Eravamo infelici. Eravamo tutti legati da un invisibile angelo sbagliato, da una disperazione inconfessabile, da una fratellanza tra contrade del cuore desolate.
C’è in Ucraina una regione mesopotamica, tra il Dniester e il Dnieper, fatta di tali lande denominate già dai romei antichi “Дике Поле”, “Loca Deserta”, in latino.
Ebbene, in certe notti di nulla, lungo i lavinai di spirito, sotto a una luna atrabiliare, i parchetti napoletani parevano proprio dei -loca deserta-.
Qualcuno si addormentava su una panchina. Qualcuno contava l’ultima grana per concedersi una squillo romena o, alla peggio, un po’ di neve per le proprie narici.
Qualcuno ruzzolava sui basoli:
“Che succede? Si è sollevata la strada?” – se la rideva senza denti un avvinazzato bulgaro.
Una notte si sollevò anche la mia di strada… e rincasai vedendo buio, con un sopracciglio lacerato.
Avevo baciato il selciato.
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Alle sbronze ero certo incline e accostumato, ma da quella in particolare mi ridestai come se un manipolo di diavoli mi vorticasse nel cranio, come se il letto fluttuasse su una marea di proiezioni procellose.
La parola “похмелье” (pokhmel’ye), usata per indicare la spranghetta del dopo sbornia, è l’unica efficace se ci riferiamo ai postumi della vodka.
Dovevo guarire. Mi tornò in mente il consiglio che il Visitatore dispensò a Stepan ne “Il Maestro e Margherita”: – Caro Stepan Bogdanoviè, nessun piramidone le sarà d’aiuto. Dia retta a una vecchia e saggia regola: curare il simile col simile. L’unica cosa che le ridarà vita sono due bicchierini di vodka accompagnati da uno spuntino caldo e piccante -.
Purtroppo, le mie riserve domestiche di acquavite erano terminate da un pezzo.
Mi trovavo costretto a rimettermi sulle gambe, a farmi largo tra i pipistrelli che si dimenavano attorno alle mie tempie.
Attraversando il corridoio, vidi per un baleno la mia immagine riflessa nello specchio: m’ero allettato con ancora indosso il cappotto inzaccherato; mi parvi un livido fotogramma del Nosferatu di Murnau.
E ributtai come corpo ebbro ributta.
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Studente sfaccendato, la pigione sempre arretrata sul collo (abitavo in uno stambugio al quinto piano, e l’avida affittuaria al piano di sotto, così che, proprio come accadeva nella prima pagina di “Delitto e Castigo”, speravo sempre nella fortuna di non imbattermi nella vecchia), ero costretto a racimolare qualche copeco con i metodi più disparati.
Igor mi propose di aiutarlo con un certo traffico da Caserta a Napoli.
Il mio compito non avrebbe comportato un grande sforzo: offrire due braccia in più per il carico e scarico, e due occhi in più per illuminare la strada.
Partimmo con il favore delle tenebre a bordo di un furgone cinerino e scalcagnato.
Igor era al posto del conducente e fumava attingendo dai pacchi di stecche contrabbandate ammucchiati sul posto del passeggero.
Nella cella posteriore sedevamo io, Vanya, un russo tartaro dalla barba di lupo, e Dato, un georgiano tozzo come un’anfora di creta. Per ingannare il tempo del tragitto rosicchiavamo semi di girasole e ne sputavamo i gusci l’uno contro l’altro, in un bislacco gioco d’artiglierie.
Dato mi disse: “Se non parlavi, pensavo che eri un georgiano”.
Giunti al luogo stabilito, ingombrammo il furgone di scatole: confezioni di pierogi, di salumi speziati sottovuoto, di cetrioli in barattolo, nelle quali si occultavano involucri di cocaina.
Nel ritorno, però, Igor non fece rotta immediata per la città sul golfo tirrenico. Ci fermammo presso uno slargo disalberato nella zona industriale: bisognava testare qualche bocca da fuoco o, meglio, sarebbe stato divertente farlo.
Vanya, imbracciato un fucile Kalashnikov, aprì il fuoco con freddezza e con buona precisione contro una fila di bottiglie poste quali bersagli a una distanza di circa cinquanta piedi; del resto, lui aveva servito come militare durante l’invasione della Cecenia, finché non ebbe disertato, abbandonando la Federazione Russa per sempre.
Venne il mio turno. Era la prima volta che tiravo fuoco con un’arma vera e propria. Tentennando, con il tremore alle mani, avevo premuto il grilletto.
Mancai il bersaglio: troppo era stato il tremar delle mani; troppo pensavo ed esitavo.
Igor raccontò che, nella glauca alba del Donetsk, ampi fari venivano sparati sui campi di girasol per abbacinare nugoli di conigli selvatici. Masnade di occhietti vacui e atterriti si sollevavano tra le zolle. Sarebbero bastate poche raffiche d’automatico per portare a casa carne di coniglio per mezzo villaggio.
Dopo quel lavoretto, misi in sacca cento bucce, e ci comprai anche cosce di coniglio.
Poi, mi procurai la vodka, quella buona, e non pagai l’affitto.
g. g.